TATIYAK - letture

Sogni artici
(Artic Dreams)
Barry Lopez - Ed. Baldini Castoldi Dalai 2006

Scheda del 29 luglio 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Sogni artici è un libro magico.
Barry Lopez è uno scrittore sui generis, con la conoscenza di uno scienziato e la sensibilità di un poeta!
Ha vissuto, studiato e sognato tra i ghiacci; capace di leggere la tundra e di ascoltare il mare, ha reso protagonista il paesaggio e gli animali che in così gran numero popolano l’Artico.
Ha scritto un capolavoro della letteratura di viaggio, a metà strada tra saggistica e narrativa, un’opera di “antropologia poetica” che ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni dalla sua prima pubblicazione, seduce ed affascina il lettore.

“I miei debiti sono tanti e la mia gratitudine, soprattutto per quanti hanno viaggiato con me nell’Artico, è molto profonda... Non so come esprimere adeguatamente la mia riconoscenza agli abitanti dei vari villaggi per l’atteggiamento comprensivo e gentile con cui hanno accolto la mia invasione. Spesso, durante i miei viaggi, mi sono trovato ad aver bisogno d’un pasto e di un rifugio per dormire: vorrei perciò ringraziare tutti coloro che mi hanno aperto le loro case”.
I ringraziamenti con cui l’autore apre il saggio chiariscono subito il suo profondo rispetto per l’ambiente artico e per gli uomini che lo abitano; e tratteggiano una filosofia del paesaggio.
“Per alcuni, questa terra rappresenta un’irritante indisponibilità alla collaborazione con l’uomo moderno”, eppure, se la si sa ascoltare e leggere, diviene ricca e generosa: “se la mente abbandona la sua presa fiduciaria sul tempo e non l’amministra convulsamente come un bene prezioso ma lo considera indifferenziato come la piattezza del paesaggio, è possibile trascendere la distanza... viaggiare lontano senza ansietà, non lasciarsi sconfiggere dalla vastità della terra. Se si è vestiti in modo adatto e si porta una piccola scorta di viveri e si hanno i mezzi per procurarsi altro cibo e costruire un riparo, la mente è molto più libera di collaborare con i sensi nella valutazione del territorio. La tundra pianeggiante così poco attraente, ricordo, è per i suoi abitanti un magazzino di viveri e di utensili pronti”!!!

L’autore racconta tutto della balena polare (“è così sensibile che al contatto delle zampe di un uccello una balena addormentata in superficie sussulta con violenza”), del bue muschiato (“ha la curiosa abitudine di indugiare a volte accosciato quando si rialza dalla posizione di riposo, e questo gli conferisce l’aria di essere assorto in chissà quali pensieri”), dell’orso polare (pisugtooq, il grande vagabondo secondo gli Inuit polari, ha un modo di camminare tutto suo e l’andatura di un orso grasso in giugno è diversa da quella di un orso magro in ottobre), del narvalo (“sono forti nuotatori e hanno la capacità di modificare leggermente i contorni del corpo per ridurre la turbolenza”), del caribù (“grigi pastori della tundra che passano come isole di fumo”), della foca degli anelli, delle oche delle nevi, della volpe artica… delle loro abitudini, delle loro migrazioni e delle loro capacità di adattamento.
L’Artico è una regione ancora misteriosa (“poiché gran parte delle sue acque è ricoperta di ghiaccio, questo oceano continua ad essere il meno compreso tra i mari del mondo”), e molti degli animali che lo abitano non sono stati studiati abbastanza a lungo per comprendere cosa li spinge a migrare o cosa fanno durante i mesi invernali o come sopravvivono sotto i ghiacci: come fanno le foche a ricordare la posizione del loro aglu per respirare? è vero che gli orsi sono mancini, come sostengono gli Inuit? perché il dente del narvalo è a spirale?

Ci sono pochi animali nell’Artico: tra le 3200 specie di mammiferi se ne trovano solo 23 che vivono oltre il limite settentrionale degli alberi, tra le 8600 specie di uccelli solo 6 o 7 svernano nell’Alto Artico, tra le innumerevoli specie di insetti nell’Artide se ne trovano non più di 600 e tra le 30.000 specie di pesci meno di 50 riescono a vivere lassù!
Eppure, nell’Artico si contano numeri enormi di animali: il mare di Bering è probabilmente il più ricco di tutti i mari nordici, al culmine della migrazione primaverile la presenza della vita lascia completamente basiti, l’abbondanza di pesce “viene espressa in numeri inconcepibili, le cifre deliranti di chi tira ad indovinare”!
Nessuno sa ancora spiegare bene perché, ma tra maggio e giugno passa sopra il Lancaster Sound un terzo della popolazione mondiale di gazze marine minori, proveniente dalla Groenlandia nord-occidentale e costituita da 30 milioni di individui!
Quando le balene polari tornano al Nord, talvolta devono attendere che il ghiaccio si apra, ed un anno un ricercatore avvistò trecento balene che aspettavano con calma, “alcune girate sul dorso, altre con il mento appoggiato sul ghiaccio”!
Alcune mandrie di caribù raggiungono proporzioni impensabili di anche 700.000 unità, come gli abitanti di una grande città che si spostano in gruppo per chilometri e chilometri!
Le grandi migrazioni di aria, di acqua e di terra (di uccelli, di mammiferi marini e di caribù) sono forse dettate tutte dalla stessa ragione: cercare un ambiente più favorevole per la riproduzione, la crescita e la sopravvivenza...
L’autore interpreta le migrazioni degli animali come una respirazione, la respirazione della terra: “In primavera una grande inalazione di luce e di animali. Il lungo respiro trattenuto dell’estate. E poi l’esalazione che in autunno spinge tutti verso sud”!
Potrebbe sembrare una terra disabitata ed inospitale, ma gli animali la occupano numerosi.
Potrebbe sembrare una terra arida e silenziosa, ma gli animali la fanno cantare: “i gemiti tremuli delle foche barbate, il crepitio elettrico dei gamberetti, il rombo baritonale dei trichechi, i latrati e i guaiti acuti delle foche degli anelli, i trilli e le armoniche dei belukha e dei narvali, i barriti elefantini delle balene polari”... aggiungete il rumore dei sedimenti che si spostano sul fondo del mare, lo scricchiolio del ghiaccio marino, lo stridore del ghiaccio profondo che urta nell’acqua bassa o le esplosioni delle lastra ghiacciate ed il mondo Artico si anima di suoni e rumori poetici, stranamente armonizzati nell’ambiente... o ancora il volo degli uccelli: “quando uno storno incomincia a sollevarsi dalla superficie dell’acqua, il suono è simile a quello d’un temporale in arrivo, un grande fragore di lamiere ondulate agitate con violenza”!

Gli Inuit hanno appreso molto dagli animali, li hanno imitati per sopravvivere, li hanno sfruttati per migliorare: sceglievano il corno del bue muschiato, più flessibile del corno di caribù, per ricavarne lance per la pesca, ed invece l’osso di orso polare più duro per costruire una punta robusta e acuminata, oppure la pelle dei salmoni per le sacche impermeabili, o ancora gli intestini delle foche barbate per le finestre degli igloo, e anche i fanoni di balena, che non marciscono nell’acqua salmastra, per realizzare le trappole elastiche per le anatre marine...
Apprezzavano particolarmente il narvalo per le sue zanne più resistenti dell’avorio e più simili al legno, per la sua pelle morbida anche col freddo più intenso, per i suoi tendini ottimi come fili per cucire, per lo strato esterno di pelle come fonte importante di vitamina C, per il grasso da bruciare per una fiamma gialla vivida e pulita, per la sua carne sufficiente a sfamare una muta di cani da slitta per un mese...
Alcuni studiosi hanno osservato una speciale affinità tra gli Inuit e gli orsi polari: la loro preda preferita è la foca dagli anelli, i metodi di caccia si assomigliano stranamente, si guadagnano da vivere ai margini dei ghiacci marini e vivono tutti sotto la minaccia della morte per fame, se le foche dovessero sparire... ma hanno anche notato una differenza: mentre gli Inuit non perdono quasi mai la calma, gli orsi invece si arrabbiano facilmente, se dopo avere spiato a lungo una foca ne falliscono la cattura, per esempio, lanciano in aria la neve o schiaffeggiano ripetutamente l’acqua per la frustrazione!
E se chiedete ad un Inuit, come ha fatto Rasmussen, cos’è la felicità, lui vi risponderà: “Incontrare tracce d’orso ancora fresche ed essere davanti a tutte le altre slitte”!
Hanno inventato parole per esprimere concetti complessi: quinuituq, pazienza profonda per l’attesa prolungata di un evento improvviso, nuannaarpoq, il traboccante piacere di essere vivi, quviannikumut, sentirsi profondamente felici per quel “senso familiare di espansività, di euforia profonda ispirato dalle condizioni meteorologiche e abbinato alla possibilità di osservare gli animali”.
L’autore si sofferma anche su concetti fondamentali: la necessità di conoscere la lingua indigena, perché “significa conoscere ciò che coloro che parlano la lingua hanno tratto dalla terra”, l’importanza di valorizzare l’omogeneità naturale dell’Artide, dalla stretto di Bering alla Groenlandia, perché una continuità linguistica tanto accentuata non si incontra in nessun’altra parte del mondo, la capacità di apprezzare la corrispondenza tra la lingua e la scultura Inuit, perché mentre noi occidentali dedichiamo nella nostra lingua molta attenzione ai concetti di tempo gli Inuit la dedicano alla varietà dello spazio...
“Molto ingegnosi davvero, come disse una volta qualcuno, questi uomini sorridenti che non hanno tasche né cappelli né ruote”!

L’autore racconta anche delle mitiche esplorazioni artiche, tutta una sequenza di scoperte ed avventure, di naufragi ed ammutinamenti, di incontri memorabili e di viaggi coraggiosi: la storia centenaria della ricerca del passaggio a Nord-Ovest, i nomi dati a stretti, isole e penisole dai grandi navigatori del tempo, dedicati a regnanti, filantropi e finanziatori, interessati spesso alle ricchezze nascoste dell’Artico ma talora anche alle conoscenze scientifiche e alla passione intellettuale...
Senza dimenticare i viaggi di greci, cartaginesi, celti, vichinghi e norvegesi, oltre che le stesse esplorazione Inuit, l’autore ci parla della Terranova di Caboto del 1497, del Labrador di un labrador portoghese, un piccolo proprietario terriero di nome Joào Fernandes che passò di là nel 1500, della baia di Frobisher del 1585 e dello stretto di Davis dello stesso anno, della immensa baia di Hudson del 1607, delle isole Bylot e Baffin del 1615, del famigerato stretto tra i due continenti che prese il nome del danese Vitus Bering che lo attraversò per primo nel 1725, e poi ancora dello stretto di Barrow del 1815, delle isole Parry del 1819, dedicate ad uno dei più giovani ed intraprendenti navigatori dell’Artico, oppure dello stretto M’Clure del 1850, in ricordo di colui che partì per cercare la sfortunata e disastrosa spedizione Franklin al seguito dell’ammirevole ma quasi ignorato Richard Collinson, superiore a tutti i suoi contemporanei per l’impegno con cui si prese cura della salute e del morale dei marinai durante i cinque anni di spedizione (cinque anni tra i ghiacci!), arrivando persino a costruire un tavole per biliardo con blocchi di ghiaccio di acqua dolce per la superficie, pelle di tricheco per le sponde e palle di legno lavorate a mano...
Il timore reverenziale che accompagnava tutte le esplorazioni artiche lascia riflettere a lungo: “la terra ingrandisce, diviene viva come un animale, umilia l’uomo in modo indicibile. Non è il fatto che la terra sia semplicemente bella: è la sua potenza… E’ una potenza che fluisce nella mente, dalla rivelazione del modo in cui tenebre e luce vi sono collegate, e dalla sensazione che questa sia la base della creazione”!

Racconta poi dell’arte di catturare la luce, della capacità di dipingere la neve, della maestria di portare sulla tela l’enorme massa dei ghiacci: la storia affascinante e misteriosa del dipinto che uno dei maggiori esponenti del luminismo statunitense, Frederic Edwin Church, realizzò nel 1859 tra gli iceberg delle coste di Terranova.
“I piccoli schizzi che aveva fatto dal vero, alcuni non più grandi del palmo d’una mano, hanno una meravigliosa intimità. Church rende tanto la monolitica imperscrutabilità degli iceberg quanto l’aspetto logoro e tormentato che hanno quando arrivano a sud”.
La vera autrice dell’opera è la terra... e l’autore osserva che indagare la complessità di un paesaggio lontano significa perlustrare il proprio paesaggio interiore perché la terra ci sprona sempre a comprendere noi stessi!

Racconta anche di kayak, naturalmente!
Molto tempo prima che la spedizione finanziata da John Barrow nel 1818 incontrasse un gruppo di Polar Eskimo sulla costa della Groenlandia e con l’aiuto di un interprete chiedesse loro “Chi siete? Che cosa siete? Da dove venite? Dal sole o dalla luna?”, uno dei più abili navigatori inglesi, John Davis, raggiunse nel 1585 le coste della Groenlandia sud-orientale al largo di quello che si sarebbe chiamato Capo Farwell, dove ebbe luogo uno dei più memorabili incontri tra due culture diverse di cui parli la letteratura artica: durante una ricognizione dall’alto di un’isola, Davis e diversi altri furono avvistati da un gruppo di Inuit che si trovavano sulla riva... “molti di costoro si spinsero in acqua con i kayak... gli eschimesi si avvicinarono cautamente con i kayak e due di loro giunsero vicinissimi alla riva”; in segno di intesa e rispetto, i due gruppi inscenarono danze e musiche e si ritrovarono anche alla spedizione successiva, anche se si trattò forse dell’unico trattamento riguardoso riservato agli Inuit, certamente un caso unico nelle prime cronache dell’esplorazione artica!
E ho forse capito perché istintivamente provo tanta ammirazione per gli Inuit: “A volte scambiamo una vita dura per una mente rozza; la carne cruda per barbarie, la mancanza di conversazione per mancanza di immaginazione. L’impressione dominante, penso, per il viaggiatore dell’Artico che si allontana dall’aereo e aspetta con pazienza che gli abitanti del villaggio si facciano passare le sbornie solenni e dimentichino le scontrosità difensive ed il comportamento timido, è che in questa gente si possa trovare una forma di saggezza. E’ una saggezza eterna che sopravvive alle fallite economie umane, sopravvive alle guerre. Sopravvive alle definizioni, E’ una saggezza senza nome stimata da tutti. E’ comprendere come si vive una vita decente, come ci si deve comportare nei confronti degli altri e nei confronti della terra”!!!

Finito di leggere, il libro è tutto un fiorire di appunti a margine, di sottolineature, di orecchie alle pagine... i libri si valutano anche per le orecchiette che uno ci fa: questo è diventato per me un’orecchia continua, quasi un incastro progressivo!
Uno dei libri più interessanti che abbia mai letto.
Pillole di saggezza, osservazioni brillanti, considerazioni profonde, ricerche approfondite sul campo, studi di biologia, etnologia, pittura e sociologia; molte carte geografiche, tutte incentrate sul Polo Nord per ridare alle terre le loro giuste proporzioni, relative alle migrazioni degli animali o alle concentrazioni di tribù Inuit o alle aree d'acqua aperte tutto l'anno; disquisizioni dotte sul Polo Nord geografico, magnetico, geomagnetico, sul Polo Nord vero e proprio e sul Polo Nord detto dell’inaccessibilità: “Immaginate di essere esattamente al Polo Nord: vi trovate in tutti i ventiquattro fusi orari contemporaneamente e a nord di ogni punto della terra. In questo giorno il sole descrive un’orbita piatta di 360° esattamente a 23 ½° sopra l’orizzonte”... quanta scienza e quanta poesia!
Una vita spesa alla ricerca del senso profondo della vita, in tutte le sue forme, vegetali ed animali, e tra gli animali incidentalmente anche l’uomo...
“Da questo rapporto dignitoso con la terra è possibile immaginare un’estensione di rapporti dignitosi in tutta la propria vita”!

Barry Lopez è biologo, etologo, antropologo ed è un noto scrittore di viaggi.
Tra i riconoscimenti avuti c’è il Premio Letteratura della American Academy of Arts and letters.
Nel 1986 “Sogni artici” gli è valso il National Book Award.
E' autore di numerose opere di narrativa e saggistica.
In Italia ha pubblicato “Lettere dal Paradiso” (2002), "Lupi” (1999 ) e "Dalla Groenlandia al Congo” (1996), edito da Traveller Feltrinelli, una raccolta di 12 racconti sulla natura, sul rischio di vivere e sull'incomprensibile avventura di un viaggio; uno dei racconti, il sesto, intitolato "Pearyland" è ambientato in Groenlandia. La traduzione italiana di "Sogni artici" ha adottato il termine "eschimese" ma, pur non essendo esperti di linguistica, nella scheda sinottica abbiamo preferito adottare la parola "Inuit", salvo che nelle citazioni dirette, per dare voce e seguito alla rivendicazione culturale e storica del popolo Inuit di essere chiamati col nome che hanno scelto.
Il sito dell'autore è www.barrylopez.com

 

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