TATIYAK - letture

Il paese dalle ombre lunghe
(Top of the world)
Hans Ruesch - Ed. Garzanti 1950

Scheda del 12 marzo 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Il romanzo di Hans Ruesch ha segnato un’intera generazione di lettori.
I suoi personaggi hanno conquistato un posto di rilievo nella letteratura contemporanea e molti ricordano ancora, a distanza di quasi sessant’anni, il coraggioso Ernenek, la bella Asiak, l’intrepido Papik, la sfortunata Ivalù e la storia singolare della loro famiglia Inuit.
Il romanzo è intriso dell’aria limpida delle sterminate distese artiche, del silenzio interminabile delle lunghe notti artiche, dell’atmosfera intima delle essenziali case di ghiaccio, del tepore prodotto dal corpo umano sommerso dalle pellicce, delle faticose battute di caccia nelle immense distese ghiacciate del Grande Nord.
 L’autore racconta con impareggiabile ironia, semplicità e poesia, la vita di un popolo semplice ed innocente, dolce e primitivo, che non aveva ancora imparato a mentire, capace di sopravvivere nella natura selvaggia ma incapace di superare indenne l’impatto con la civiltà moderna.
Ernenek, il protagonista del romanzo, grande cacciatore Inuit, è indeciso tra due sorelle, impiega troppo tempo per prendere moglie e si vede soffiare sotto il naso la sua preferita da un cacciatore più determinato; si getta allora all’inseguimento della loro slitta, per scoprire durante il viaggio di preferire Asiak e di voler tenere lei come unica moglie.
Sembrerebbe l’inizio di una felice storia d’amore, se non fosse per i ghiacci del Grande Nord che rendono dura la vita, lunghi gli inverni, lontani gli uomini; quando incontrano un cacciatore armato di fucile, Ernenek sembra uscire di senno e, dimentico delle esigenze della famiglia, caccia soltanto volpi per un anno intero in modo da poter scambiare tutte le pelli con l’uomo bianco, segnando inconsapevolmente l’inizio della sua fine.

Lo storico romanzo di Hans Reusch è stato introdotto al grande pubblico con una prefazione alla prima edizione del 1950 dai toni molto significativi: “in questi ultimi anni la narrativa italiana contemporanea, con Moravia, Levi, Silone, Vittorini, Malaparte ed altri, ha ottenuto negli Stati Uniti una popolarità mai raggiunta... ma uno dei successi più notevoli di quest’anno è stato conseguito da un giovane svizzero con un romanzo affascinante... un libro dotato di un potere d’attrazione universale... e difatti Hans Ruesch è un narratore nato, nel quale non si sa se ammirare maggiormente l’humour o l’acutezza dell’introspezione, se il vigore con cui ha disegnato i suoi singolarissimi personaggi o la profonda umanità con cui li ha vissuti”.
Lo scrittore stesso si sentiva di chiarire nella prefazione alla ventesima edizione italiana del 1966 che le condizioni descritte nel romanzo erano del tutto reali e che gli usi ed i costumi descritti non sono frutto delle sue invenzioni letterarie, ma sono effettivamente quelli riscontrati da autorevoli esploratori presso varie tribù primitive Inuit.
Ed infatti, il romanzo di Hans Ruesch è ricco di informazioni sul popolo Inuit, disseminate con sapienza durante il racconto, nelle pieghe dell’avventurosa vita di Ernenek e della sua famiglia, e ci rimandano l’immagine di un popolo ingegnoso, leale e rispettoso della natura, animato da regole di comportamento che fanno apparire inadeguate quelle della “civiltà” occidentale.
Ruesch ci racconta con trasporto e compassione di un popolo forse ormai scomparso, ma che è stato capace di insegnare all’uomo bianco molto di più di quanto non abbia da lui appreso.

Gli Inuit badano di non toccare pesce mentre mangiano carne per non suscitare l’ira dei geni tutelari, quando uccidono un orso offrono milza e vescica ed ogni volta che uccidono una foca gli versano in bocca acqua dolce e poi restituiscono le carcasse al mare, così gli spiriti degli animali possono raccontare di essere stati trattati egregiamente dal cacciatore ed invogliano altri esemplari a farsi catturare a loro volta dai veri uomini, gli Inuit.
Sono cacciatori esperti e grandi viaggiatori, migrano continuamente su slitte trainate da cani, ai quali frantumano le zanne per renderli meno aggressivi; quando il riverbero della luce artica è talmente abbagliante da risultare insopportabile per un giorno intero, lungo anche tutta la notte perché in estate il sole non si abbassa mai sotto l’orizzonte, allora di anneriscono le palpebre e le narici di fuliggine e si proteggono gli occhi con un’assicella di legno munita di due fessure, che li fa tanto assomigliare a moderni sciatori professionisti.
Costruiscono igloo sull’oceano, dove l’acqua intrappolata sotto la coltre ghiacciata mitiga le rigide temperature artiche, e sono talmente esperti nel modellare le loro case che la calotta sporge di un metro appena dalla superficie, sferica e compatta per non offrire presa alla bufera, talmente incassata nel ghiaccio da fremere per il rombo della tormenta e da farsi cullare dal movimento ondulatorio del mare sottostante; usano una lucerna per illuminare e scaldare l’interno dell’igloo, “dar fuoco all’esca di funghi secchi per mezzo della selce piromaca e accendere il lucignolo di muschio” per sciogliere il grasso di foca nel vaso di steatite, unico suppellettile della casa di ghiaccio insieme ad un recipiente di pietra per raccogliere l’urina di familiari e visitatori, necessaria per la concia delle pelli o per indumenti e teste da lavare.
Gli Inuit non hanno leggi scritte, ma regole semplici, sentite e molto rispettate: “l’espulsione dalla comunità era la sola pena conosciuta da una gente che ignora capi, codici e prigioni, ma una pena temuta quanto la morte da chi considera la compagnia umana il più prezioso dei beni”; se proprio dovevano uccidere un uomo, dovevano almeno mangiarne un pezzetto di fegato per placarne lo spirito, tagliarne un dito della mano e del piede e metterglieli in bocca; se proprio volevano un figlio, dovevano sincerarsi che il primo fosse un maschio, altrimenti la nascita di una “femmina inutile” avrebbero ritardato l’arrivo di un maschio che da giovane avrebbe procacciato il cibo per tutta la famiglia (“devi pensare che una bambina piccola ha così poco valore che generalmente la sia fa morire, ma proprio per questo ha molto valore appena s’è fatta grande, perché di grandi ve ne sono poche”); se devono darsi la morte per vecchiaia e alleviare la famiglia del peso di una bocca in più da sfamare, allora cominciano a correre sul ghiaccio fino a sudare tanto da gelare, assopire e morire assiderati di una morte dolce ed indolore, convinti che l’anima è immortale e che “la morte non può essere più dura della vita”.
Sono stati gli ideatori del kayak ed anche Ruesch rende omaggio a questa pregevole imbarcazione: “per un istante si interessò a due ragazzini che arrancavano in fragili kayak di pelle di foca sui rivoli d’acqua tra i ghiacci galleggianti; erano abbottonati in giacche impermeabili di budello che, serrate ai polsi e chiuse ermeticamente intorno all’apertura dell’imbarcazione, li rendevano parte del piccolo canotto [sic!] e perfettamente stagni, permettendo loro di far capriole nel mare, di capovolgersi e riemergere con un colpo di pagaia senza imbarcare acqua... i ragazzi eseguivano veloci capriole, tuffandosi in mare e facendo fare un giro completo ai loro kayak con lo spostamento del peso dei loro corpi, riemergendo poi svelti dall’altro lato con l’acqua che gocciolava dai visi unti e ridenti”; il solo amuleto che possa assicurare l’abilità necessaria per maneggiare un kayak con maestria è un piede di smergo!

Gli Inuit sono famosi per essere amici del gelo “facendosi servire da lui invece di temerlo”, i loro vecchi “conoscono l’avvenire perché conoscono il passato” e tutti gli uomini sanno quali sono i rimedi migliori contro le insidie del destino: “un ciuffo di peli di coniglio delle nevi contro il morso del gelo, una coda di donnola contro la tormenta, un’unghia d’orso contro il fulmine, un dente di cane contro la fame, una pelle di martora contro i malanni, una coda di ghiottone contro la pazzia, una testa di volpe contro i tranelli, un gabbiano disseccato per avere fortuna nella pesca, un orecchio di renna per un udito sottile, un pizzico di fuliggine per la resistenza, una mosca per l’invulnerabilità, un occhio di foca contro il malocchio,e soprattutto una pelle d’ermellino cucita nel parka, alla quale infondere vita per difendere l’uomo da qualsiasi avversario”, o ancora il proprio cordone ombelicale disseccato contro le avversità, una testa di cane mangiata all’età di un anno per acquistarne la saggezze, un pene di foca portato al polso per diventare un buon cacciatore di foche, pezzetti di pelle d’orso cuciti nella manica per divenire un abile cacciatore d’orsi”... con tante precauzioni, non c’era da meravigliarsi che gli Inuit avanzassero in quel mondo ostile!
Ma nulla hanno potuto contro l’uomo bianco: Ernenek aveva già udito “che tutti dovevano inchinarsi alle leggi degli uomini bianchi, i quali non rispettavano le leggi altrui”, anche se si era convinto che avrebbero fatto meglio a portandosi dietro le loro mogli e non le loro leggi!
E così Ernenk, che uccide per sbaglio il missionario che rifiuta sdegnato di coricarsi con Asiak, recando un’offesa umiliante al valoroso cacciatore, viene presto raggiunto e catturato da due poliziotti bianchi, che però viaggiano senza amuleti, finiscono in un crepaccio e rischiano di morire assiderati se non fosse per l’intervento del saggio ed esperto Ernenek... che però non riesce a comprendere sino in fondo la cultura di quello strano popolo, che “stava invadendo inesorabilmente la terra bianca, preceduto dalla sua fama, accompagnato dalle sue armi, i suoi cibi, le sue bevande, i suoi costumi, i suoi idiomi, i suoi tesori, i suoi dèi; portando doni non richiesti e prendendo roba senza chiedere; imponendo le sue leggi e infrangendo quelle altrui”.
Sarà la religione e la insensibile campagna di conversione dei primi missionari a sconvolgere la vita degli Inuit, forse più del commercio e dell’alcool dei primi balenieri.
Gli Inuit, racconta Ruesch, dolci e creduli per indole e rispettosi verso gli stranieri, erano stati sempre facili da convertire ma non comprendevano le ragioni dell’uomo bianco, l’opposizione del missionario alla “limitazione demografica mediante l’uccisione di vecchi inutili e di neonati in soprannumero, praticata normalmente per adeguare la popolazione alla capacità di sostentamento della regione”, oppure la sua insofferenza della nudità, a qualsiasi temperatura, anche dentro le case di legno riscaldate con la stufa e troppo calde per gli Inuit.
Loro si erano sempre preoccupati di non uccidere un caribù bianco, di non far cucire le donne fuori stagione, di non fare cacciare foche o balene alle donne, perché queste erano considerate azioni peccaminose e foriere di disgrazie per l’intera comunità, ma non capivano l’avversione dell’uomo bianco per lo scambio delle mogli e la sua feroce campagna contro l’adulterio.
Ruesch fa dire ad Ernenek che anche gli uomini bianchi prendono in prestito le mogli degli altri, con la sola differenza che non lo vogliono fare sapere, lo fanno di nascosto e senza dirlo al marito: “Dimmi un solo motivo per cui non dovrei prestare mia moglie. Presto la mia slitta e mi viene resa sconquassata, presto i miei cani e tornano a casa stanchi, presto la mia sega e poi le mancano i denti, ma ogni volta che presto Asiak ella torna come nuova!”

Ancora più tragico sarà il destino di Ivalù, la bella figlia del grande cacciatore Ernenek, convertita e sedotta dal missionario del villaggio che scappa quando lei rimane incinta... Ivalù, che mai ha conosciuto un uomo e che ha sempre considerato le attenzioni del missionario segno della sua buona condotta cristiana, si convince di avere messo al mondo un bambino frutto della sua immensa fede nel nuovo dio dell’uomo bianco... verrà tacciata di spergiuro ed espulsa dal villaggio, obbligata a vivere di elemosina ai margine della comunità, per scoprire dolorosamente “ogni tribù ha il dio che si merita, perché ogni dio è fatto ad immagine di chi crede in lui, e così la gente stupida ha un dio stupido, gli intelligenti hanno un dio intelligente, i buoni un dio buono, i cattivi un dio cattivo. Il dio degli uomini bianchi è un dio terribile, geloso e vendicativo, perché essi sono gente terribile, gelosa e vendicativa”.
Il vecchio sciamano del villaggio cerca invano di consolare la bella Ivalù con parole sagge che la donna non riesce a comprendere appieno: “uno sciamano non conosce il dio degli uomini bianchi, ma la luce interna che illumina tutti gli sciamani ci rivela che chi fece gli uomini li vuole felici, non infelici, non vuole vedere facce funebri, ma facce sorridenti, non vuole sentire lamentele, ma risate, così può ridere un po’ anche lui”.
Per tentare di evitare la disgrazie finale, lo sciamano esorta la bella Ivalù a tornare a vivere tra i ghiacci, lontano dall’uomo bianco, al sicuro dalla vendetta del loro dio, nella sola terra dove la sua saggezza può salvarla :”il tuo dio deve esser fatto a immagine di te stessa e dei tuoi, un cacciatore gaio e generoso, che divide il frutto della sua caccia e ride con tutte le donne e fa figli in tutti gli igloo. Non dimora in una soffocante casa di legno riscaldata a carbone, ma nei grandi spazi ghiacciati. Non teme il freddo, perché ha la pancia piena di grasso. Non credere mai in un dio che vuol vendicarsi sulle sue stesse creature per averle create piene di manchevolezze: è un falso dio e coloro che ne propagano la dottrina sono ignoranti” (!)
Una conclusione disarmante che invita a riflettere, specie se si considera che il romanzo è uscito nel lontano 1950 e che il suo autore era un uomo bianco occidentale, forse cattolico.

La storia narrata non prevede un lieto fine, la vita della piccola famiglia Inuit continuerà più triste e difficile di prima, la loro serena esistenza è stata spezzata dal germe infettivo della cattiveria e del pregiudizio.
Il romanzo di Hans Ruesch è una lettura imprescindibile per comprendere a fondo non solo la cultura Inuit, raccontata con leggerezza e attenzione, quanto piuttosto la cultura occidentale, la superficialità e l’invadenza dell’uomo bianco, incurante di tradizioni millenarie ritenute primitive e che solo più tardi, forse troppo tardi, saranno riconosciute come le uniche capaci di assicurare la sopravvivenza nelle lontane e fredde terre artiche.

Hans Ruesch è stato un famoso pilota automobilistico e ha sfidato i grandi campioni di un periodo leggendario, come Tazio Nuvolari, prima di diventare uno degli scrittori più famosi al mondo, coronando con una serie di successi letterari una vita da romanzo come oggi non ne esistono più molte.
Scrittore di lingua inglese, nato a Napoli da madre italiana e padre svizzero, è scomparso all’età di 94 anni il 27 agosto 2007 nella usa casa di Massagno vicino Lugano.
Dopo molti romanzi letti in tantissimi paese, “Il paese dello ombre corte”, “I mammà e papà”, “Partita di caccia”, “Com’essere poveri”, “Il numero uno”, tutti scritti in inglese e poi da lui stesso tradotti in italiano, aveva abbandonato la sua carriera letteraria per dedicarsi alla saggista.
E’ stato riconosciuto come il fondatore del moderno movimento antivivisezionista, scrivendo nel 1976 un’opera divenuta presto il manifesto della battaglia contro la vivisezione, quella “Imperatrice nuda” che ha suscita tanto scandalo in ogni paese in cui è stato pubblicato ma che ha permesso di fare finalmente luce sulla grande truffa della vivisezione denunciata apertamente dallo scrittore.

                    

Partendo dalla sua prima esperienza di pilota, nelle lunghe attese ai box scrisse il suo primo libro, “Il Numero Uno”, pubblicato nel 1938: la storia di un campione che per amore delle gare sacrifica la sua vita privata, romanzo ispirato al tedesco Rudi Caracciola, il più vincente tra i piloti della sua epoca. Visto il brillante esordio, Ruesch si trasferì nel 1940 negli Stati Uniti per dare corso alla sua carriera letteraria, che si rivelò di grande successo.
La sua seconda opera letteraria, infatti, “Il paese dalle ombre lunghe” sulla vita degli Inuit, scritto negli Stati Uniti dove si era trasferito per dare corso alla sua fortunata carriera letteraria, è diventato subito un libro di culto con 3 milioni di copie vendute. Hollywood colse al volo l' occasione e, da entrambi i titoli, ricavò due film: “The Racers” del 1954, con Kirk Douglas nel ruolo del protagonista e divenuto nel titolo italiano “Destino sull'asfalto”, ed il nostro “The Savage Innocents” del 1959 con Anthony Quinn nel ruolo del cacciatore Inuk.

“Mi aspettavo un uomo pesante, ingombrante. Un grande vecchio, saggio e serio. Ma Ruesch non è un uomo pesante. E’ leggero come sono leggere le persone ironiche. Nonostante il suo corpo stia andando apparentemente in pezzi, penso a Ruesch e mi sento ottimista. Perché lui ha cavalcato la vita, è stato protagonista, ha vissuto all’altezza delle avventurosa storie che ha scritto, e se adesso deve morire, be’, almeno tutto ha avuto un minimo di senso e deve essere stato in parte anche molto divertente. Giacché non è stato con le mani in mano Ruesch. Decisamente no” (Francesco Pellizzari dalla sua intervista “L’ultimo eroe”).
 

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