TATIYAK - letture

A Nord verso la lunga notte
(North to the night - A spiritual Odyssey in the Artic)
Alvah Simon - Ed. Sonzogno 1998

Scheda del 7 aprile 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Alvah Simon decide di trascorrere a bordo della sua barca a vela un lungo inverno buio e solitario tra i ghiacci impenetrabili dell’artico, in una piccola baia dell’Isola di Bylot, oltre l’Isola di Baffin, ed inizia il racconto della sua grande avventura con una conclusione disarmante: “Ho tentato in tutti i modi di abituarmi all’oscurità e alla solitudine; per un po’ ci sono persino riuscito, ma alla fine è stato inutile. La luce e le risate sono i carburanti della spirito umano”.
Ecco, questo è lo spirito che pervade l’intero romanzo: peripezie e riflessioni, introspezioni e scoperte, paura e conquiste… tutto il libro è intriso d’avventura! E di dettagli curiosi sul popolo Inuit e sul creatore di tutte le cose: il Grande Corvo!

Alvah scopre subito il kayak: “nell’arte del design nautico dei vari paesi avevo scoperto elementi che rispecchiavano la cultura locale, e mai avevo trovato una linea tanto semplice ed elegante quanto quella del kayak… con pelli e pochi ossi i primi Inuit avevano creato un’imbarcazione sobria e, nel contempo, leggera, rapida, silenziosa, inaffondabile, che garantiva loro l’accesso alla risorsa più preziosa della vita nordica, i mammiferi marini… un barca fatta di parti animali per cacciare animali rispecchia un ambiente in cui la biodiversità è molto scarsa... ancora oggi, in quelle acque gelide, gli uomini guidano kayak di pelle o tessuto tesi su telai di legno; assicurate al ponte di prua, vi sono le sacche d’aria ricavate dallo stomaco delle foche e legate ad arpioni con la punta d’osso di balena; come i loro padri e i loro nonni, gli Inuit siedono pazientemente in silenzio, il tempo scandito dalle gocce che cadono dallo loro pagaie a doppia pala, in attesa che emerga la loro preda...”
Ed impara presto ad amare gli Inuit e ad ammirare le loro abitudini: “sanno essere un popolo freddo e duro quanto il loro territorio, ma anche gentili e amorevoli, sorridenti e delicati, nel modo effimero della loro terra… conoscono il collante che tiene insieme una comunità e il loro amore e la loro indulgenza verso i figli sono leggendari”.
Tra le righe della sua avventura, tra racconti emozionati di incontri ravvicinati con foche, trichechi, volpi, buoi muschiati, girifalchi ed orsi polari, tra narrazioni concitate di burrasche, mareggiate, iceberg alla deriva e navigazioni estreme, tra riflessioni amare e profonde sulla vita, la morte, l’amore, la fortuna ed il soprannaturale, l’autore parla molto degli Inuit, in maniera attenta, rispettosa ed affettuosa.
Parla degli abiti morbidi e caldi (“calzano stivali di pelle di foca, indossano pantaloni d’orso e lunghi parka guarniti di pelliccia di lupo o di ghiottone… camminano con l’andatura strascicata di chi conosce bene la superficie scivolosa del proprio mondo“), del cibo grasso ma nutriente (“tra gli Inuit le malattie cardiovascolari sono quasi sconosciute, in quanto gli oli dei mammiferi marini e dei pesci d’acqua fredda contengono molti acidi grassi insaturi omega-3”), delle abitazioni fredde ma estremamente funzionali (“pur possedendo una conoscenza intuitiva dei termoclini e delle correnti, gli antichi Inuit riscaldavano le loro abitazioni di ghiaccio con una sola lampada alimentata con grasso di balena, ventilandole in modo sicuro...”), dei cani da slitta addomesticati ma profondamente selvatici (“un uomo viene giudicato in base ai cani che guida… gli Inuit ammirano e incoraggiano quel ningaq (spirito combattente) sapendo che, una volta imbrigliato, troverà sfogo nella volontà del cane di tirare le slitte oltre i limiti naturali”), dei costumi sessuali apparentemente disinibiti (“i mariti Inuit ridevano del misterioso kabloonah - l’uomo bianco che barattava i favori sessuali delle giovani e sorridenti Inuit con strumenti per la caccia - e dicevano: prima, lui ha il coltello, e io ho la moglie; dopo, io ho la moglie, e il coltello!”), della curiosità per il gatto di bordo, Halifax (“in un porto invitammo a bordo un uomo e sua figlia. La piccola era affascinata da Halifax e persino dopo averla coccolata per un po’ domandò ”Papa, è vera?”), della fama di luoghi sconosciuti ed irraggiungibili (“su carte geografiche e mappamondi i cartografi scrivono, per ragioni di spazio, solo i grandi centri mondiali: Parigi, New York, Mosca... ed Etah. Etah? E’ un ammasso di niente nel cuore del nulla, ma è scritta in grassetto su ogni atlante. Non vi è anima viva, ma il luogo nel quale gli ufficiali inglesi Ross e Parry incontrarono il primo “eschimese polare” nel 1818 rimane inspiegabilmente impresso nella memoria dell’Occidente”), dell’invadenza di quell’Occidente per gli Inuit ancora molto lontano (“individui la cui mente ragiona in termini circolari ora vivono in case quadrate”), della curiosità per le loro capacità di sopravvivenza nell’Artico (“quanti membri vi sono in media in una famiglia Inuit? Un padre, una madre, due figli, e un antropologo!”), della storia antica e moderna di quelle terre ghiacciate: da Erik il Rosso (l’ autore del più famoso caso di pubblicità fraudolenta perché aveva chiamato la terra verde ad est “Terra dei Ghiacci”, l’Islanda, e la terra ghiacciata ad ovest “Terra Verde”, la Groenlandia) al Nunavut recente (istituito nel 1999 per sancire l’autonomia amministrativa dalla Danimarca anche se la Groenlandia non è mai stata invasa né occupata da eserciti).
L’autore racconta anche le abitudini, le curiosità e le sorprendenti capacità di adattamento degli animali artici: i caribù che si cibano di muschio e che sono stati minacciati dalla nube di Chernobyl (gli Inuit che prediligono il caribù hanno rivelato livelli di radioattività pericolosamente alti); i trichechi solidali con gli esemplari malati o feriti; i cani da slitta scelti in una stessa cucciolata per avere la madre come capo muta; le oche delle nevi che emettono grida in volo per incoraggiare il capo stormo; il bruco peloso dell’orso che impiega ben 14 anni per diventare farfalla e per poi librarsi nella primavera artica per sole due settimane; il girifalco che depone 2-3 uova all’anno e che rischia l’estinzione...
L'intestazione dei capitoli del libro scandisce il ritmo della narrazione, insieme ai ritmi della natura: Camden, Maine, giugno 1994, tredici ore di luce… Baia di Melville, agosto 1994, venti ore di luce... Tay Bay, novembre 1994, zero ore di luce… e così via fino alla felice conclusione dell’avventura, segnata da eventi imprevisti ed imprevedibili che metteranno a dura prova il protagonista...
Alvah aveva letto le disavventure di tanti altri esploratori e cercava di trarre insegnamento dalle loro esperienze: quelli che imitavano i “primitivi” uomini polari per non congelare, quelli che offrivano loro cibi conditi con troppo sale per scoraggiare le loro visite di cortesia e conservare così le preziose scorte; quelli che adottavano i loro stessi metodi per attraversare il deserto di ghiaccio e riuscire a sopravvivere.
Ma nonostante tutto commette degli errori grossolani che rischiano di compromettere il viaggio: scaglia un libro la cui lettura era stata deludente fuori dal sacco a pelo ed infrange l’unica lampada di riserva; rimane bloccato nella cabina perché durante i suoi sonni invernali ogni giorno più lunghi il ghiaccio si infiltra e sigilla ogni apertura; perde le scorte di ghiaccio di acqua dolce contaminate dall’acqua salata e allora costruisce un rudimentale igloo per cercare di proteggere le nuove scorte; rincorre nel buio il vaso da notte sospinto dal vento polare lontano dalla barca e per ritrovare la strada di casa deve tastare le sue impronte prima che vengano sommerse dalla neve; non si accorge che la gattina sta lentamente congelando, le spezza un orecchio nel tentativo maldestro di riscaldarla e poi glielo sistema mentre è ancora anestetizzata dal freddo; quando ormai pensa di essere in punto di morte si cosparge la pancia di miele, per indurre la gatta ad associare il suo ventre al cibo, nella remota speranza che almeno la fida compagna di viaggio possa sopravvivere; capisce in ritardo che la combinazione tra la scarsa areazione della cabina ed il quotidiano utilizzo del riscaldatore a fiamma lo stava lentamente intossicando e risente a lungo dei sintomi: cecità, nausea, depressione, paranoia, palpitazioni, emicranie...
Ma ogni volta, recupera il lume della ragione in tempo per riemergere dal buio della follia e per sopravvivere alle dure leggi dell’Artico!
A bordo di una barca a vela con lo scafo in acciaio, con provviste sufficienti per due anni, attrezzature di ogni tipo, la gatta Halifax come unica compagnia, Alvah Simon esplora da solo per cinque mesi il mondo meraviglioso e ossessionante degli iceberg, della tundra e dei fiordi, alla scoperta della propria anima, arrivando a conquistare la più grande delle onorificenze quando un Inuit gli stringe la mano e gli dice :”saresti un buon Inuk”.

                     

Alvah Simon è sempre stato un viaggiatore, un velista. Quarto di nove figli, comincia sin da ragazzo una lenta migrazione verso ovest, lasciando la natia New York per spingersi sino a Key West, salpando da lì con una barca a vela per circumnavigare il globo terracqueo... dopo 13 anni di peregrinazioni, conosce una splendida ragazza dai capelli biondi, Diana White, che diventerà sua moglie e con la quale condividerà molte altre avventure... quando finalmente sbarcano in Florida, dopo avere effettuato una circumnavigazione completa intorno al mondo, sperano di realizzare il desiderio di Diana di avere una casa accogliente ed un giardino fiorito, ma Alvah rimane affascinato da una vecchia fotografia di Knud Rasmussen e Peter Freuchen e decide di seguire le loro tacce: “Li definiscono esploratori, ma io conoscevo quegli sguardi. Erano cercatori, il che è molto diverso”.
Nel 1992 Alvah sceglie così di coronare il suo sogno e di raggiungere la sua “Ultima Thule” in compagnia della moglie... i due si documentano e si preparano per due anni, vendono la loro vecchia barca, ne comprano una nuova con lo scafo in acciaio, il Roger Hanry protagonista del romanzo, e finalmente partono per affrontare l’odissea verso la terra degli Inuit descritta nel romanzo “A nord verso la lunga notte”... fanno una scelta controcorrente e non cercano una sponsorizzazione, perché vogliono “rispettare i ritmi naturali, senza date o scadenze commerciali”... pur di realizzare quella “avventura profondamente personale” accettano i lavori più disparati: operatore nei servizi sociali, conducente di macchine pesanti in un silos per cereali, maestro in corsi di paracadutismo, operaio addetto a scortecciare tronchi, venditore di opali, installatore di tubi sottomarini, addetto nei cantieri navali, scrittore... mentre organizzavano il viaggio, Diana trova un lavoro remunerativo: vendere biglietti sulla nave che porta i turisti a vedere i delfini al largo della Florida e rispondere pazientemente a domande quali “a che ora parte il giro di mezzogiorno?”... Qualunque cosa pur di viaggiare!
Quando finalmente raggiungono Tay Bay, la loro dimora per l’intero inverno, Diana deve rientrare in Nuova Zelanda perché riceve la notizia inaspettata della malattia terminale del padre; viene recuperata da un elicottero, spedito laggiù dopo un complicato ponte radio con una stazione situata a 500 km ad ovest ed aperta solo da giugno ai primi di ottobre... potrà fare ritorno alla sua “casa”, così l’ha sempre definita e considerata, solo dopo 5 mesi e comincia anche lei ad apprezzare le bellezze e a temere le insidie del Grande Nord: rischia di affogare tra i ghiacci proprio quando cominciano a sciogliersi e a liberare la barca dalla loro morsa.

All’arrivo della primavera artica, i due vengono raggiunti dal fratello di Alvah, un, esperto sciatore che aveva pensato di coprire a piedi, una slitta trainata con gli sci, la distanza che separava la barca dal più vicino villaggio abitato (oltre 100 miglia marine): ne percorre esattamente quattro, viene bloccato da una bufera di neve, soffre di un principio di congelamento a mani e piedi e deve rinunciare all’impresa... raggiungerà il fratello a bordo di una moto slitta, per trascorrere un mese di ferie andando alla scoperta dei ghiacciai che coronano Tay Bay... aveva risposto piccato ad Alvah che lo metteva in guardia sui grandi pericoli dell’artico con un messaggio laconico: “non è giusto che tutto il divertimento sia tuo”!
Quello a Tay Bay non sarà l’ultimo viaggio dei coniugi Simon e i due vivono ancora a bordo della loro barca.
Per quella e altre imprese nautiche, i Simon hanno ricevuto nel 1997 il “Cruising World Award for Outstanding Seamanship” ed il libro di Alvah ha vinto il premio “International Boating Writers Contest” nel 1996. La coppia ha partecipato spesso a trasmissioni televisive e radiofoniche ed è stata sovente intervistata dalla stampo. I coniugi Simon sono sempre in viaggio ed ancora oggi raccontano le loro peripezie dai quattro angoli del mondo con moderne tecnologie informatiche (vedi Alvah Simon’s blog sul sito forums.cruisingworld.com)


 

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