TATIYAK - letture

La civilisation du phoque
Jeux, gestes et techniques des eskimo d'Ammassalik
Legendes, rites et croyances des eskimo d'Ammassalik

di Paul-Emile Victor e Joelle Robert-Lamblin
Editioni Armand Colin e Raymond Chabaud - 1989 e 1993

Scheda del 28 gennaio 2012 a cura di Tatiana Cappucci

Non uno ma due volumi, non tascabili ma di grande formato.
Che meritano qualche precisazione sin dalla presentazione.
Il primo riguarda i giochi, i movimenti e le tecniche degli Ammassalimiut, ed è stato pubblicato nel 1989, corredato con schede e disegni di Paul-Emile Victor e con testi scelti da Joelle Robert-Lamblin. Il secondo volume riguarda invece le pratiche, i riti e le credenze degli Ammassalimiut ed è stato pubblicato qualche anno dopo, nel 1993.
Può una civiltà essere definita dall'animale che le assicura la sopravvivenza?
Fino al 1930 gli Inuit di Ammassalik non hanno vissuto che per e grazie alla foca: una piccola popolazione di cacciatori nomadi che avevano vissuto nell'isolamento, tra i ghiacci dell'Inlandsis e quelli della banchisa, sulla costa orientale della Groenlandia alla latitudine del circolo polare.
Sono rimasti sconosciuti ed isolati fino al 1884, quando al termine di una lunga e difficile spedizione in umiak l'ufficiale di marina danese Gustav Holm incontra per la prima volta questa etnia. La loro esistenza era nota solo agli abitanti del sud-ovest della Groenlandia ed erano proprio loro a chiamarli “Ammassalimiut”, vale a dire le genti del luogo dove si trovano gli “ammassat”, una piccola specie di merluzzo chiamato cappellano.

Paul-Emile Victor vive presso di loro nel corso di due inverni, tra il 1934-35 ed il 1936-37, raccoglie dati, informazioni, testimonianze; coadiuvato dall'amico medico Robert Gessain riempie interi quaderni di appunti e disegni, avviando per primo le ricerche sul campo del popolo delle foche.
Gli Ammassalimiut erano allora in numero di 413, disseminati su circa 500 chilometri di costa.
Quando l'esploratore francese torna ad Ammassalik nel 1951 constata che ci sono già una strada e due camion e la maggior parte delle case in pietra e zolle d'erba sono state sostituite da case in legno in stile danese. Quando ritorna per una qualche ora durante una trasferta aerea nel 1964 rileva che i cambiamenti intervenuti sono ben più profondi: la lingua è più simile a quella della Groenlandia occidentale, le case sono tutte in legno d'importazione, surriscaldate e dipinte di verde, rosso e giallo, le slitte che non hanno ormai più niente in comune con quelle che aveva studiato, disegnato e lui stesso progettato.
Negli anni Novanta scriveva che le cose si erano ulteriormente deteriorate, l'evoluzione ed occidentalizzazione accelerate: “ci sono più funzionari che cacciatori, c'è la televisione ed il video, il telefono internazionale, le auto, i taxi, le motoslitte ed orribili case popolari a più piani... Gli Ammassalimiut sono diventati groenlandesi orientali che non conosco più. Ma li ho conosciuti bene e sono quelli di cui parlo, al presente. Del resto, cos'è l'etnologia se non lo studio dell'evoluzione della civiltà negli anni?”
Dalla testimonianza sul campo (1934-1937) alla pubblicazione del lavoro (1989-1993) trascorrono più di cinquant'anni anni ma mai come per gli Ammassalimiut il tempo ha corso veloce: nel 1884, mentre i loro conterranei della Groenlandia occidentale assorbivano la colonizzazione europea da più di un secolo e mezzo, dopo l'arrivo del pastore norvegese Hans Egede nel 1721, gli est-groenlandesi di Ammassalik erano, invece, una sorte di sopravvissuti della preistoria alle soglie del XX secolo!
Gli appunti raccolti da Paul-Emile Victor sono andati perduti per lunghi anni, durante i quali lo studioso si è dedicato ad altre spedizioni polari; sono poi stati ritrovati, classificati e commentati da Joelle Robert-Lamblin e mostrano tutta la loro freschezza ed autenticità anche cinquant'anni dopo la loro redazione. I disegni ritraggono con grazia e precisione la vita quotidiana del popolo delle foche, i loro movimenti, le loro abitudini, i loro giochi, disegnati e descritti con tocco sicuro perché il celebre esploratore è stato anche un grande disegnatore e ha saputo e voluto trasmettere la gioia di avere vissuto a lungo insieme a quelle genti per cui nutriva un profondo rispetto.

Il piccolo pesce che ha dato il nome al popolo non era che un elemento primordiale per la sussistenza degli Ammassalimiut: questi nomadi sono stati prima di tutto dei cacciatori di mammiferi marini, essenzialmente balene, foche, narvali, beluga e trichechi, anche se nella Groenlandia orientale il mare è ricoperto di una spessa banchisa per la maggior parte dell'anno e non libera facilmente le sue ricchezze. “Come non ci si può riempire d'ammirazione di fronte ad una tale sfida lanciata alla natura ostile dall'uomo che, grazie al suo genio, ha saputo adattarsi a quelle rare risorse e vivere in totale autarchia nel corso di numerosi secoli”.
Grazie alle loro tecniche di spostamento, gli Ammassalimiut sono stati in grado di spostarsi lungo oltre 1000 chilometri di costa, tra i 61°50 di latitudine di Puisortok ed il 68° di Kangerlussuak; eccezion fatta per i due periodi dell’anno in cui gli spostamenti sono impossibili, all’inizio dell’inverno quando il ghiaccio deve ancora formarsi e al principio della primavera quando comincia a sciogliersi, per il resto dell’anno il popolo delle foche è stato capace di adattarsi a tutte le situazioni imposte dal clima e dal luogo, semplicemente sfruttando tre mezzi di trasporto, slitta, umiak e kayak, tutti e tre flessibili, maneggevoli e leggeri. Anche combinandoli tra loro: il kayak poteva essere trasportato con la slitta fino al confine dei ghiacci per poi iniziare una battuta di caccia, oppure la slitta veniva issata sull’umiak per traversare fiumi o bracci di mare...

    

Il primo volume è ricco di informazioni storiche, sociali ed ambientali sulla comunità degli Ammassalimiut, sulla storia della regione prima del 1884 e negli anni immediatamente successivi, sul clima e sulle stagioni, sulle risorse naturali, sul modo di vita delle famiglie dei cacciatori, sui ritmi quotidiani e persino sulle modalità di divisione delle prede: il dente d’avorio del narvalo spetta al cacciatore (nannitteq) che ha ucciso l’animale, la pelle dell’orso a chi lo ha per primo avvistato (anche un bambino dell’accampamento!), mentre al primo cacciatore che tocca una foca o un beluga spetta il quarto posteriore destro, al secondo il quarto posteriore sinistro, al terzo l’arto anteriore destro, al quarto l’arto anteriore sinistro, al quinto l’appendice caudale e anche chi ha solo assistito alla caccia ha diritto al grasso esterno e ai muscoli addominali. La divisione viene eseguita dalle donne, dalla moglie del cacciatore oppure dalla madre se non è ancora sposato: ai genitori del cacciatore spettano le parti dello sterno della foca, ai genitori della sposa invece la colonna vertebrale, e la distribuzione segue poi regole ferree di parentela collaterale ed allargata, che interessa anche i bambini che hanno assunto il nome dei defunti. Al cacciatore solitamente non resta che la testa dell’animale, una parte del grasso e le viscere, perché anche la pelle diviene di proprietà della sposa o della madre, che si occupano poi di lavorarle per realizzarne indumenti o rivestimenti per le imbarcazioni.

I vari capitoli sono dedicati nell’ordine alle tecniche di spostamento (in slitta, kayak ed umiak), alla gestualità quotidiana nella caccia, nel lavoro o nella comunicazione, alla musica col tamburo, ai giochi (di mimica con le mani, di corde e cordicelle, di ossa, equilibrio e prove di forza), e si conclude con un lungo e dettagliato capitolo sulla fine dell'isolamento culturale e geografico in cui vengono tracciate con la sapienza dell'antropologo la persistenza delle migrazioni estive contro la sparizione del nomadismo invernale, la diversificazione delle attività di caccia, pesca ed artigianato, la scoperta dell'assistenza sociale e del lavoro salariato, quello che non richiede alcuna qualifica a uomini e donne di casa (kippaq) che si recano presso le abitazioni dei funzionari danesi e vestono i panni dei primi collaboratori domestici dell'era moderna.
Il secondo volume è invece tutto incentrato su leggende e poemi, su canti tradizionali e formule magiche, su riti e tabù che scandivano la vita della comunità degli Ammassalimiut. La caccia, la nascita, la morte, tutto è pretesto per un rituale spirituale che gli sciamani praticano e tramandano oralmente e che gli studiosi tentano di dipanare per comprendere meglio la vita religiosa e culturale del popolo artico. Un gioiello di 420 pagine, di molti disegni a mano libera, di ritratti di sciamani e di fotografie della comunità, presentata attraverso un articolato albero genealogico che bene chiarisce i rapporti tra i singoli e le famiglie e tra loro ed i ricercatori sul campo.

Entrambi i volumi sono corredati di carte geografiche dettagliate della regione, di glossari pieni di parole in uso nel passato e di una ricchissima bibliografia.
Ci vuole del tempo per leggere tutto, ogni pagina è piena di indicazioni chiare e precise sulla tecnica di pulizia delle pelli di foca, sulle acconciature dei capelli delle donne, sulla preparazione dei giochi della corda, le posizioni da assumere con mani, braccia e gambe.
Nel gioco del trapezio (acināratārnè), per esempio, una corda composta con 4-5 tendini di foca viene tesa dentro casa tra i muri laterali: gli uomini, raramente le donne, si sfidano ad eseguire movimenti acrobatici intorno alla corda stessa, rimanendo sospesi con le mani ravvicinate, incrociate, o disposte in modi via via più difficili e coreografici.

Nella presentazione dell'umiak i numerosi disegni accompagnano il lettore nelle varie fasi della costruzione, dall'assemblaggio delle travi di legno alla sistemazione delle pelli di foca a prua e poppa, dalle dimensioni delle pale alle tecniche di navigazione, con la disposizione precisa dei membri dell'equipaggio: al timone il proprietario dell'imbarcazione, oppure l'anziano più esperto, ai remi le donne della famiglia ed i ragazzi ancora senza kayak, mentre la moglie del proprietario dell'umiak solitamente non rema, salvo che scelga di farlo per piacere o per riscaldarsi, ma mai in maniera sistematica e continuativa. A sottolineare l'importanza dell'imbarcazione, una nota chiarisce che l'umiak non viene mai prestato, se non in caso di reciproco scambio di doni.
Il popolo delle foche eccelleva nella costruzione di barche e slitte, nonostante la carenza di legname: i lavori di falegnameria venivano eseguiti con i pochi tronchi trasportati dal mare che dalla Siberia raggiungevano le coste orientali della Groenlandia. La penuria di materiale aveva acuito l'ingegno.
La slitta tradizionale degli Ammassalimiut ha rappresentato l'unico mezzo di trasporto fino all'introduzione degli sci in legno e più tardi delle slitte a motore. La struttura in legno e tiranti di tendini di foca ha subìto delle modificazioni proprio a partire dai primi contatti con gli europei e lo stesso Victor ha apportato delle varianti alle slitte utilizzate nelle sue esplorazioni lungo costa, tanto che nel tempo sono diventate più grandi, più stabili e più maneggevoli, munite di freni per ridurre la velocità del tiro di cani o di barre longitudinali e non più trasversali per risultare al tempo stesso più flessibili e più resistenti alle ondulazioni del terreno.

Al kayak (caqit) è naturalmente riservato un lungo capitolo: “niente è più personale del kayak di Ammassalik, poiché questa imbarcazione monoposto è costruita sulle misure proprie del suo utilizzatore, non solo in relazione alla sua statura, ma secondo la larghezza delle cosce e la lunghezza delle gambe. L'uomo, grazie ad una retroversione delle ginocchia, deve scivolare con le gambe all'interno del kayak, esattamente come una mano infila un guanto “très ajusté”. Ed una volta dentro, si protegge dall'acqua con una sorta di tunica impermeabile che sistema intorno al busto e al pozzetto in modo che “le kayakeur fait véritablement corps avec son embarcation”.
Idealmente, un cacciatore possiede due kayak di misure diverse, per rispondere a bisogni diversi: un kayak corto, per essere trasportato facilmente sulla slitta e per navigare in un mare ancora ingombro di ghiacci, ed un kayak lungo, più stabile e veloce per navigare in un mare finalmente libero da ostacoli. E' sempre abbastanza leggero da poter essere trasportato da un uomo solo: nei trasporti più lunghi il cacciatore carica il kayak sulla testa, infilando la testa nel pozzetto e poggiando il kayak sulle spalle, ma più di frequente lo appoggiato alle anche infilando le braccia nel pozzetto. Il kayak viene sempre attrezzato per la caccia e tutti gli accessori tradizionali sono disposti sul ponte in un ordine rigoroso e funzionale: l'arpione, il suo propulsore e la lunga cima legata al galleggiante, la lancia, il fucile, il supporto per la cima e lo schermo bianco per mimetizzarsi meglio nell'ambiente circostante. Di ogni accessorio vengono fornite misure, disegni e modalità di costruzione ed è tale la dovizia di particolari che viene voglia di mettersi subito al lavoro per costruirsi un supporto per la pagaia (nutakit): una semplice assicella dotata di una doppia coppia di piccoli pioli in osso, pensata per incastrarsi sotto le cime fissate sul ponte anteriore e per fare della pagaia un perfetto bilanciere... ancora oggi utilizziamo lo stesso sistema per mantenere l'equilibrio, provare per credere!

La costruzione del kayak, come dell'umiak, è un lavoro collettivo che impegna l'intera famiglia, uomini e donne, perché dalla sua buona riuscita dipende la vita del cacciatore. Viene restaurato ogni due anni, gli uomini lavorano il legno, le donne le pelli e alla copertura partecipano tutti: gli uomini intervengono per tendere le pelli, per passare i tendini sul ponte, per fissare il pozzetto, sistemare le punte di avorio per la protezione delle estremità. Le donne scelgono le pelli con estrema attenzione, le tagliano secondo regole prestabiliti e le cuciono per adattarle allo scafo, assecondano i desideri dei cacciatori fissando pelli bianche e nere in maniera non solo funzionale ma anche estetica. Grande cura viene riservata alla costruzione del kayak non solo per renderlo impermeabile ma anche per abbellirlo con ornamenti in osso ed avorio: gli ornamenti non rispondono solo ad esigenze artistiche, pure sentite e valorizzate, ma anche a bisogni spirituali di protezione del cacciatore col richiamo di numi tutelati o di spiriti naturali.
Dalle testimonianza raccolte tra 22 cacciatori, vengono riportate le misure esatte dell'imbarcazione, che può variare in lunghezza dai 5,15 ai 5,90 metri, in larghezza dai 45 ai 50 centimetri, con un pozzetto di appena 33 o 39 centimetri, e con precise distanze tra il pozzetto, la prua e la poppa, tra i longheroni interni e gli slanci delle estremità.
L'equilibrio del kayak è estremamente precario e tutti i movimenti del corpo devono essere misurati, tanto che l'addestramento comincia tra gli 8 ed i 10 anni sotto lo sguardo attento del padre: il giovane cacciatore impara col tempo a pagaiare, a lanciare l'arpione, a sparare col fucile, a navigare e ad eseguire l'eskimo per recuperare la posizione iniziale. E' così che, partendo dalla necessità vitale di evitare o superare una situazione pericolosa, l'eskimo è presto diventato uno sport di eccellenza praticato dagli Ammassalimiut con estrema destrezza e fantasia, tanto da inventare diversi modi per perdere e recuperare l'equilibrio in kayak. Protetto dall'anorak impermeabile (qajarcit), ben chiuso intorno al viso, ai polsi e alla vita, gli esperti di eskimo si sfidano per gioco e per necessità, lanciandosi in acqua distesi a prua o a poppa ed escono con l'aiuto della pagaia, del norsaq o delle sole mani.
Nel corso del tempo il kayak ha perso la sua funzione e la sua peculiarità, sostituito dalle barche a motore introdotte nella regione a partire dagli anni Sessanta. Nonostante la rinomata abilità dei cacciatori Ammassalimiut, gli incidenti in kayak costituivano all'inizio del secolo scorso la causa più frequente di mortalità maschile e non stupisce affatto che i genitori abbiano smesso di insegnare ai figli questa ancestrale tecnica di caccia, mantenuta ormai soltanto come materia scolastica facoltativa.

Paul-Emil Victor, pur non essendo un canoista, si è cimentato nella presentazione schematica e sistematica di ben 20 diversi tipi di eskimo, dal più semplice con la pagaia allungata al più complesso con le mani incrociate: considerando che ogni figura ha la sua variante a destra e a sinistra e che alcune figura hanno anche le ulteriori varianti di prua e di poppa, i cacciatori di Ammassalik conoscevano 48 tipi diversi di eskimo. Victor aveva fotografato e disegnato tutte le posizioni e tutte le fasi dell'eskimo ma quando a distanza di cinquant'anni ha cercato quelle sue vecchie note gli oltre cento scatti sono risultati introvabili e così l'opera è corredata quasi esclusivamente di disegni. Colpisce la capacità dimostrata dall'esploratore di focalizzare l'attenzione esattamente sul punto critico del movimento o sul momento importante per la riuscita dell'eskimo. “Gli Ammassalimiut sono per me i migliori “eskimoteurs” del mondo. Anche se è una tecnica pressoché dimenticata, alcuni cacciatori di Ammassalik sono ancora in grado di eseguire le due figure fondamentali del naqatatirtuŋu e del patertituŋu”, vale a dire rispettivamente l'eskimo a pala lunga di prua e di poppa. Spiega Victor che il movimento fondamentale per l'eskimo è quello eseguito con la pagaia: “il movimento consiste nel fare percorrere alla pala attiva della pagaia un cerchio che termina all'indietro, il kayaker si ritrova in acqua disteso sul ponte posteriore... poi si distende in avanti e comincia il movimento di rotazione della pagaia, sotto l'acqua, finché non si trova progressivamente raddrizzato, il viso rivolto al cielo, ancora completamente disteso sul ponte posteriore, e nella posizione finale, per recuperare l'equilibrio finale, si sposta in avanti con un movimento rapido appoggiandosi alla pagaia”. Non è esattamente l'eskimo stilizzato dal regolamento attualmente adottato dal comitato del Campionato Internazionale di Eskimo che si disputa ogni anno in Groenlandia, in una città sempre diversa per raggiungere tutte le comunità e ravvivare l'interesse per l'antica tradizione popolare, ma è sicuramente una delle più dettagliate e chiare spiegazioni della manovra esistente in letteratura.

Paul-Emile Victor è stato esploratore, etnologo, ingegnere, disegnatore, artista e pioniere dell'ecologia. Nato a Ginevra nel 1907, è morto nel 1995 a Bora-Bora, dove si era da tempo trasferito e dove veniva spesso definito come “un eschimese nel pacifico”. Il suo sito ufficiale è ricco di informazioni sul suo conto: http://www.paulemilevictor.fr
Joelle Robert-Lamblin è stata la sua preziosa collaboratrice nella edizione di queste due opere colossali ed è una delle più competenti studiose delle popolazione artiche, avendo effettuato diverse spedizioni presso le comunità groenlandesi ed aleutine. Interessante, tra gli altri, il suo studio sul kayak aleutino, il mitico “baidarka”: http://www.arctickayaks.com/PDF/Robert-Lamblin1980/robert-lamblin.htm
Il loro sodalizio viene spiegato a dovere nell'introduzione del primo volume e merita di essere richiamato per esteso perché ci è sembrato il risultato di una collaborazione umana oltre che scientifica volta a valorizzare il lavoro e le capacità di entrambi.
Paul-Emile Victor ha trascorso due inverni ad Ammassalik, negli inverni del 1934-35 e del 1936-37. Dopo avere svernato in Groenlandia, però, l'esploratore si è dedicato alle spedizioni polari francesi in Canada, Alaska, Islanda e persino in Antartico; per lunghi anni non si è più potuto dedicare all'etnologia, sua prima materia di studio e molti dei suoi appunti sono andati perduti. Nel 1989 mancava all'appello ancora un terzo dei suoi documenti originali, che tra schede etnografiche, note, disegni, “journaux de terrain, ”testi raccolti sotto dettatura o scritti direttamente dagli informatori Ammassalimiut, riempivano“deux grandes valises et pèse environ 40Kg”, come spiega bene nell'introduzione utilizzando parametri tutt'altro che scientifici. Una parte delle sue note etnografiche sulla Groenlandia orientale sono state utilizzate per redigere alcune pubblicazioni scientifiche dal suo collega di spedizione, il medico francese Robert Gessain, divenuto dapprima vice-direttore poi direttore del Musée de l'Homme e fondatore del Centre de Recherches Anthropologiques dello stesso Museo. Ma non sarebbe stato possibile recuperare nulla di quella enorme mole di carte, dopo oltre cinquant'anni, senza la collaborazione dinamica ed erudita della coautrice dell'opera, Joelle Robert-Lamblin, una ricercatrice che sin dal 1962 ha lavorato proprio con Robert Gessain al Musée de l'Homme. Molti studiosi insistevano da tempo affinché Paul-Emile Victor recuperasse i suoi scritti, ma quando ha avviato il lavoro si è sentito scoraggiato dall'enorme mole di materiale ed allora Joelle è “riuscita nel miracolo” di classificarli, riunirli e valutarli, gettando le basi per il lavoro comune lavoro nei due volumi che compongono la raccolta. Ai primi due, è seguito un terzo volume, pubblicato sulle riviste scientifiche danesi Meddelemser om Gronland e composto dalla maggior parte dei canti e dei poemi raccolti sul campo (800 in totale), trascritti in lingua est-groenlandese e traduzione danese e francese: la redazione dei testi ha presentato diverse difficoltà perché, tra le altre cose, la lingua degli Ammassalimiut del 1936 è una lingua arcaica parzialmente dimenticata ed in parte evolutasi sotto l'influenza esterna della lingua groenlandesi occidentale. Ai tre volumi, tutti curati da Joelle Robert-Lamblin, sono seguiti poi altri articoli pubblicati sulle riviste etnologiche specializzate. Insomma, una gran quantità di appunti e documenti che ora arricchiscono questi due volumi e che aiutano a far luce su una civiltà dal glorioso passato che sembra orami destinata ad un lento declino.
Il Centro Polare Paul-Emile Victor (http://www.centrepev.com) è ospitato in una curiosa costruzione ai piedi delle Alpi francesi, a Prémanon, il paese di origine dell'esploratore, a due passi da casa: non escludiamo di farci un salo prima o poi...

       

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