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 Il 
romanzo di Kari Herbert è la ricca testimonianza di una giovane donna inglese 
che parte alla ricerca delle sue origini, della sua infanzia, dei suoi ricordi 
nell’Artico. Seppur malamente tradotto in italiano, “La figlia dell’esploratore” è un 
racconto fresco ed affascinante, ricco di dettagli ed aneddoti, un documento 
unico per entrare nella quotidianità della vita del popolo Inuit, conoscerne le 
tradizioni, la storia e la cultura... uno spaccato autentico della Groenlandia 
di ieri e di oggi.
 Brani più intimisti si alternano a racconti storici ed avventurosi e tutto il 
romanzo è pervaso di quell’aura così intrigante per cui il personale diventa 
sociale...
 “Quando avevo dieci mesi di età, mio padre mi portò con mia madre nelle aree 
selvagge della Groenlandia di Nord-Ovest, dove avremmo vissuto insieme a una 
tribù indigena di cacciatori...”
 Nel 1972, la piccola Kari si trasferisce con la sua famiglia sull’Isola di 
Herbert, così chiamata con opportuna omonimia dall’esploratore E.A Inglefield, 
che aveva voluto dare il nome di uno degli uomini del suo equipaggio ad una 
striscia di terra lungo la costa groenlandese, abitata da uno degli ultimi 
villaggi sopravvissuti di cacciatori Inuit, “il secondo insediamento 
continuativamente abitato più a nord del mondo”!
 
“Fin dalla mia infanzia ho sempre sentito chiamare il popolo di Thule esquimesi 
polari, ma di recente gli eschimesi polari hanno iniziato a chiamare se stessi 
Inughuit, parola che significa “il popolo reale”...La prima precisazione è seguita dalla altre, in una sequenza intima e sussurrata 
di informazioni ed aneddoti sulla vita quotidiana della nuova famiglia polare 
di Kari: “A casa dei nostri vicini mi sentivo completamente a casa mia. I figli 
degli eschimesi polari si abbandonavano a comportamenti che avrebbero 
terrorizzato le altre madri europee o americane. La loro attitudine aperta nel 
crescere i bambini si è evoluta (sic!) da due convinzioni: la prima è che il 
bambini è un’anima rincarnata e potrebbe anche essere il loro padre, la loro 
madre o uno dei loro nonni... la seconda è che le migliori lezioni si imparano 
con l’esperienza. Se un bambino giocava con un coltello affilato, i genitori al 
massimo mormoravano “anganga” (è pericoloso) ed il bambini avrebbe imparato 
presto quanto doloroso possa essere un taglio”.
 I suoi genitori, invece, per quanto esperti esploratori e navigati avventurieri, 
si dimostravano comprensibilmente più protettivi nei confronti della loro 
piccola Kari ed ogni volta che la bambina si avvicinava alle costose 
attrezzature fotografiche sparpagliate per la casa le gridavano dietro “Stai 
attenta, Kari”, un richiamo diventato presto un ritornello canzonatorio per gli 
altri bambini polari: “staa-i-attt-entaa, Kari”!
 Nel 1972 c’era ancora orgoglio sui volti dei cacciatori, “il ghiaccio degli 
iceberg veniva ancora fuso per far cuocere gli stufati di carne e le carcasse 
gocciolanti di foche erano il benvenuto sanguinante all’entrata di ogni 
capanna”... le vecchie donne sorridevano con le gengive rovinate per avere 
masticato tutta la vita le pelli degli indumenti da ammorbidire; l’aria era resa 
pesante per l’odore acre del grasso ed era piena dei richiami degli husky 
selvatici...
 Nel corso degli anni la comunità era radicalmente mutata, tanto che l’Isola di 
Herbert verrà progressivamente abbandonata e rimarrà ben presto deserta, con i 
soli ricoveri per i cani durante la stagione estiva... così, quando Kari 
deciderà di tornare a distanza di trent’anni scoprirà quanto nel frattempo è 
cambiata la sua patria artica!
 
  Il 
romanzo di Kari Herbert è disseminato di succose curiosità. Gli Inuit chiamano la Groenlandia, un luogo dalle proporzioni incomprensibili e 
dalle statistiche sbalorditive (la sua lunghezza è uguale alla distanza tra la 
Scozia ed il Sahara, i suoi ghiacciai ogni anno producono diecimila iceberg, la 
sua calotta polare contiene circa il 10% dell’acqua fresca di tutto il mondo) il 
paese Kalaallit Nunaat, che significa “Terra Bianca” e credono che sia il Regno 
della Natura ed il luogo più grande dei sogni delle persone...
 La maggior parte delle case dell’Artico sono costruite come palafitte fuori dal 
terreno per due ragioni: in primo luogo perché il calore della casa non si 
disperda a contatto con il permafrost, ed il secondo luogo perché la neve 
trasportata dalle bufere non ne sigilli le porte, tenendo così in ostaggio gli 
inquilini...
 Gli Inughuit non sono mai stati possessivi con i beni di loro proprietà 
e fin dai tempi remoti hanno sempre condiviso, prestato e chiesto in prestito 
senza alcun problema i beni di prima necessità: fiocine, slitte e kayak, 
riuscendo in tal modo a sopravvivere anche nei periodi di carestia...
 Gli Inughuit, inoltre, hanno sviluppato sensi moto acuti, necessari per 
sopravvivere nell’Artico, e la loro vista da lontano è straordinaria, capace di 
cogliere leggere sfumature o particolari per altri insignificanti: “le mie 
sorelle eschimesi rimasero stupite del fatto che vedevo offuscati gli oggetti in 
lontananza, mentre loro riuscivano a identificare una foca e a dire di che razza 
e di che sesso fosse, mentre io riuscivo a mala pena a distinguere un puntino 
all’orizzonte”!
 Il sistema della giustizia in Groenlandia, poi, è assai curioso per un 
occidentale: in tutto il paese, la più grande isola della terra dopo 
l’Australia, ci sono solo 140 poliziotti; nel caso di gravi condanne per 
omicidio o violenza, qualora il colpevole non venga considerato una minaccia per 
il resto della comunità, “l’accusato riceverà una sentenza che gli permetterà di 
restare in Groenlandia” (e di non essere trasferito in una prigione in 
Danimarca!), purché rimanga lontano dalla comunità in cui ha commesso il 
crimine; inoltre, gli Inughuit credono che gli esseri umani non sono 
infallibili, che i reati devono essere puniti, che colui che li ha commessi si 
deve pentire, e soprattutto che la comunità non deve farsi carico del 
sostentamento di chi ha violato le regole: quindi, il condannato in grado di 
lavorare dovrà continuare a cacciare per pagarsi cibo ed indumenti... geniali!
 
La bambina cresciuta tra gli "eschimesi polari" scoprirà tanti segreti.Grande sarà la sua delusione nello scoprire che i bambini polari non 
credevano affatto che Babbo Natale arrivasse veramente dal Polo Nord e 
consegnasse i regali con una slitta guidata dai tugto (le renne), perché orami 
tutti sapevano che Nihima (Babbo Natale, appunto) era un soldato americano che 
arrivava in elicottero!
 Per secoli gli Inughuit sono state le guide preziose ed indispensabili 
delle spedizioni al Polo Nord, pur interrogandosi sulla follia di simili 
spedizioni, visto che al Polo non c’era niente e, privo di animali com’era, era 
per loro anche privo di tesori... proprio non capivano il desiderio dell’uomo 
bianco di infilzare un pezzo di ghiaccio (uguale a tanti altri ma più lontano 
degli altri) con una fiocina su cui attaccare una bandiera!
 Triste la storia (vera, purtroppo!) della stazione meteorologica danese 
trasformata in base militare americana nell’immediato secondo dopo guerra: 
quelle popolazioni pacifiche che mai avevano fatta la guerra e neanche avevano 
la parola nel loro pur ricco vocabolario, rimasero vittima della guerra che i 
bianchi si facevano tra loro: furono cacciate dalle loro terre, tra le più 
ricche riserve venatorie della zona, senza preavviso e senza alternativa e 
perfino sotto la minaccia di violenza immediata nel caso gli ordini impartiti 
non fossero stati rispettati...
 
La scrittrice andata a cercare le sue radici scoprirà molte antiche credenze.La meravigliosa leggenda della dea del mare, fuggita negli abissi per sottrarsi 
alla cattiveria umana; tra i lunghi capelli neri annodati in grumi inestricabili 
dai continui errori umani ella nasconde gli animali marini nei periodi di 
carestia per punire il genere umano dei suoi eccessi... così un potente sciamano 
deve raggiungerla con un viaggio lungo e periglioso, cercare di calmarla con 
parole dolci mentre le scioglie e pettina i bei capelli neri… la dea delle acque 
è allora contenta ed in segno di riconoscimento rimanda le prede nei mari!
 “Prima che arrivassero i missionari, gli eschimesi non credevano negli dei in 
quanto tali, ma credevano che tutto intorno a loro fosse pervaso dagli spiriti; 
tra di loro gli spiriti erano indipendenti e nessuno poteva contrastarne un 
altro, sebbene nel loro insieme complicassero enormemente la vita degli 
eschimesi, che era già abbastanza difficile”... per esempio, uno sciamano può 
essere anche un buon cacciatore ma non può cacciare nulla che viva in acqua: 
“bisogna scegliere tra l’essere un buon cacciatore o un angàkoq (sciamano) e per 
un angàkoq la vita è dura”!
 Secondo la tradizione Inughuit, l’orso bruno è il più intelligente degli 
animali, tutti rispettati profondamente perché unica fonte di cibo e di calore; 
l’orso bruno più dell’orso bianco è un potente simbolo della mitologia polare 
ed uno spirito guida imbattibile: nessuna magia è impossibile per la sua forza 
spirituale e nessun uomo può pronunciare il suo nome senza rischiare la sua 
vendetta!
 Il dizionario di inuktun riporta alla memoria della scrittrice le parole 
usate per indicare i vari tipi di ghiaccio e di neve: nilak, ghiaccio di 
acqua dolce; hiku, ghiaccio di mare; kanik, ghiaccio di brina; 
hikuhaq, ghiaccio sottile; ilu, ghiaccio all’interno di una finestra 
o di una tenda; hikuliak, ghiaccio nuovo; manirak, liscia 
estensione di ghiaccio; maniillat, ghiaccio sulle alture; kassut, 
ghiaccio fluttuante; qainnguq, ghiaccio sottile attaccato alla spiaggia;
qaniit, neve che cade; matsak, neve bagnata; agiuppiniq, 
ammasso di neve; qimiarhuk, ammasso di neve contro un iceberg... un 
elenco interminabile!
 
Nel bel romanzo di Kari Herbert ci sono due pagine intense sul kayak e su 
un corso di eskimo impartito ai cacciatori che hanno dimenticato questa 
magnifica arte, necessaria per sopravvivere durante le battute di caccia.“Gli eschimesi polari dell’area di Thule usavano i kayak fin dai tempi della 
prima immigrazione dal Canada, ma avevano dimenticato l’arte del kayak intorno 
al 1660, soprattutto a causa di una glaciazione delle acqua. Tuttavia, 
nonostante quell’arte fosse stata reintrodotta nella zona nel 1863 da una 
seconda immigrazione proveniente dall’Isola di Baffin, la conoscenza di come 
raddrizzare (!) un kayak capovolto non fu mai riappresa (tranne che nella zona 
dell’estremo sud, dove i groenlandesi occidentali conservarono le loro capacità 
e conoscenze nell’uso del kayak).”
 Così, per ovviare all’inconveniente e per diminuire il numero di decessi per 
annegamento, gli Inughuit avevano cercato di recuperare gli antichi 
saper dei loro avi: dopo avere visto in televisione della persone che facevano 
l’eskimo e dopo avere scoperto che c’erano insegnanti qualificati per insegnare 
quella disciplina, avevano deciso di chiamare un istruttore di eskimo per tenere 
dei corsi durante la stagione estiva a tutti i cacciatori della zona.
 “Uuli aveva imparato a fare l’eskimo nella Groenlandia Occidentale da un 
insegnante Inuit del Canada che era arrivato specificamente per insegnare ai 
groenlandesi come raddrizzarsi se si capovolgevano… Mettendo la pagaia per il 
lungo del kayak, si piegava in avanti e rotolava in modo liscio nell’acqua, 
ricomparendo un attimo dopo, torcendo la schiena e facendo una comica scrollata 
di spalle per la temperatura gelida. I bambini guardavano affascinati, con i 
loro occhi spalancati. La dimostrazione era impressionante. Uuli si esibì in una 
serie di tecniche per raddrizzare il kayak, con o senza pagaia e usando anche 
l’impugnatura della sua fiocina...”
 Ed il kayak provoca una sconosciuta e seducente “malattia da kayak”: “In queste 
eteree giornate di estate, quando la natura è ferma e silenziosa, il cacciatore 
può sprofondare in un vuoto confusionale sensoriale (!)... confuso dalla luce 
riflessa e dall’enorme distesa d’aria e d’acqua, che non sembrano più entità 
distinte ma un miraggio fluido senza alcun limite definito, scopre che il suo 
corpo, già così rigido per le ore di paziente attesa sull’acqua, è paralizzato. 
Facendosi prendere dal panico, potrebbe non riuscire a muoversi o a scuotersi da 
quell’incantesimo, fino a quando qualcosa di esterno a lui, forse lo spruzzo di 
un narvalo, lo riporta alla realtà”!!!
 La figlia dell’esploratore è diventata negli anni lei stessa un’esploratrice!
 
 Kari 
Herbert è una scrittrice ed un fotografa molto conosciuta... La prima lingua imparata da bambina è stata l’Inuktun, il dialetto groenlandese 
della città di Thule: il padre l’aveva condotta a vivere lassù all’età di soli 
dieci mesi e per circa due anni… i suoi primi amici sono stati i bambini Inuit 
del villaggio, i suoi nonni adottivi i vecchi pescatori e cacciatori…
 Il padre, pioniere delle esplorazioni artiche, Sir Wally Herbert, e la madre, 
scrittrice e consigliera, Marie Herbert, trasfondono nella figlia la loro 
smisurata passione per l’Artico...
 Kari tornerà a cercare il contatto instaurato dai genitori con una delle ultime 
comunità di cacciatori groenlandesi solo nel 2002, quasi trent’anni dopo, per 
lenire le ferite inferte dalla vita e per recuperare una memoria atavica.
 Dopo il suo romanzo di esordio, The explorer’s daughter, tradotto in molte 
lingue ed accolto da ottime critiche, l’autrice sta ora lavorando al suo secondo 
libro, “Heart of the hero: women behind polar exploration”, in attesa per il 
2010.
 Il suo sito è ricco di sue fotografie scattate durante i suoi anni di lavoro al Polo: 
http://www.kariherbert.com
 
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