TATIYAK - letture

Dove il vento grida più forte
Robert Peroni con Franscesco Casolo
Sperling & Kupfer - 2013

Scheda del 2 febbraio 2014 a cura di Tatiana Cappucci

Il libro che Robert Peroni ha scritto con Francesco Casolo non è una autobiografia ma un viaggio guidato nella vita di un popolo straordinario.
L’incipit del primo capitolo è avvincente: “Dicono che se non si comincia da bambini, non si impara ad andare in kayak”.
Parla ancora, di kayak, nel corso del suo racconto sugli usi e sulle tradizioni locali: si tratta, spiega, di qualcosa di molto personale, perché ogni kayak viene costruito intorno al girovita del cacciatore, in modo che non imbarchi acqua e permetta a chi lo guida di muoversi più agilmente”. Le traduzioni sono al solito un po’ approssimative ma l’autore sa di cosa parla.
Ci ritorna al capitolo dieci, nell’introduzione. Racconta cose note: “Tradizionalmente le madri cucivano il kayak con la pelle di foca su misura per il cacciatore a cui era destinato. Avere un kayak significava poter sfamare se stessi e la propria famiglia”. Ma anche cose meno note: “Qui i bambini di due o tre anni li mettono seduti a terra, riproducono loro intorno la forma del kayak con dei sassolini ed i piccoli devono dimostrare di saper stare in equilibrio. Mettono cinque sassi a destra e cinque a sinistra, i bambini si siedono e iniziano a remare come matti. Per loro è solo un gioco, ma intanto imparano, e quando avranno dieci anni potranno andare in mare aperto senza avere paura delle onde”.

L’autore confessa subito che lui e la Groenlandia “si sono trovati”, che la Groenlandia lo ha salvato, calmato. Nonostante la solitudine che si respira sul posto, anzi forse proprio grazie alla solitudine. E’ un sentimento che acquista connotati differenti rispetto a come la intendiamo noi occidentali: “Non si tratta di non avere un amico con cui passare del tempo o una compagna, né di ritrovarsi a partire da soli o non ricevere telefonate. In Groenlandia la solitudine è assoluta: l’immensità del territorio produce un silenzio assordante e l’uomo è sovrastato dalla maestosità della natura. E’ una solitudine che può essere tanto terrificante quanto meravigliosa, perché rende più accorti: le orecchie si tendono ad ascoltare i rumori, anche i più lievi, e lo sguardo si apre ad ogni più piccolo dettaglio”.
Peroni è diventato un po’ Inuit, dopo tanti anni vissuti tra loro a Tasiilaq, nella Groenlandia orientale: “Io penso una cosa: se vuoi veramente sapere di più di te stesso, devi andare da solo... Prima di creare una vera unione, un uomo deve lavorare su se stesso, partire e andare, lasciare il mondo per potervi tornare. Da solo, però, perché la solitudine, quella positiva, è qualcosa che, nell’abbandono degli altri, ci permette di rientrare nel gruppo come persone migliori”.
La riflessione si sposta subito sulla paura, un altro sentimento vissuto dagli Inuit in maniera differente: “Quando Knud Rasmussen, uno dei primi antropologi a fare ricerca sul campo tra gli Inuit, chiede alla sua guida in che cosa credesse, questa gli rispose: <<Noi non crediamo, noi abbiamo paura>>”. La paura degli Inuit non corrisponde alla nostra idea di qualcuno che batte i denti per lo spavento, ma piuttosto è simile a quello che in italiano chiameremmo ignoto. Per esorcizzare le proprie paure, gli Inuit ricorrono allo sciamano, cercano con canti e danze di tacitare i loro timori per ciò che non sanno spiegare, comprendere e dominare. Lo sciamanesimo non è mai stato abbandonato dagli Inuit, neanche quando si sono convertiti al cristianesimo: per loro non c’era alcun motivo per cui Gesù non potesse convivere con le loro divinità.
Gli Inuit sono un popolo che ha conosciuto la paura ma che non ha mai smesso di aprirsi al mondo, di stupirsi e di impegnarsi a capire una cultura diversa dalla propria... anche quando gli altri, i bianchi, li hanno costretti ad adottare abitudini contrarie alla loro cultura. E non solo abitudini religiose.

Uno dei motivi del recente degrado sociale groenlandese, specie nella piccola comunità orientale, è stato il divieto imposto dalla comunità internazionale, su pressione delle organizzazioni ambientaliste ed animaliste, della caccia alla foca. Il motivo ufficiale, apparentemente valido e condivisibile, era quello di evitare l’estinzione di questi splendidi mammiferi dagli occhioni enormi: ma gli Inuit hanno sempre cacciato solo per la sopravvivenza, lo stretto indispensabile, senza mai intaccare l’equilibrio ecologico della zona. I pescherecci europei, al contrario, non hanno saputo rispettare quelle stesse regole ancestrali e quando si è reso necessario intervenire per tutelare gli animali polari lo si è fatto in maniera superficiale e miope. Imporre anche agli Inuit le stesse regole di divieto assoluto di caccia alla foca (e di vendita delle pelli) valide per gli occidentali ha decretato la fine di tradizioni millenarie, la decadenza di un popolo mite ed isolato dal mondo, la crescita del disagio individuale e collettivo. La caccia costituiva l’unica fonte di sostentamento per intere famiglie Inuit, gli uomini che non possono più cacciare non possono più neanche sfamare i propri figli, trasmettere ai giovani le proprie conoscenze, dare un senso alle proprie giornate.
“La foca era tutto per loro. Dava cibo, pelli per i kayak e vestiti e grasso da bruciare d’inverno. Se non c’erano più foche in un fiordo, bastava spostarsi in quello successivo e in quello dopo ancora: era sempre stata questa la loro disposizione d’animo. All’improvviso, però, qualcuno aveva deciso che le foche non dovevano più essere toccate. Tutti li disprezzavano e loro non sapevano come reagire”.
Attualmente la foca può essere cacciata dagli Inuit, ma non se ne può vendere la carne o la pelle: un paradosso evidente ignorato dalla comunità internazionale e dalla stessa Unione Europea. Peroni sul tema si accalora: “Mi capita spesso di partecipare a conferenze su questo tema e ogni volta vengo accusato di difendere tradizioni barbare o di non avere alcuna sensibilità ecologica... In Groenlandia consumiamo probabilmente un decimo rispetto a qualunque popolo occidentale e teniamo in vita una terra in cui nessuno ha mai voluto abitare”.
I sussidi stanziati dal governo danese non hanno risolto il problema, forse lo hanno acuito, insieme alla diffusione dell’alcool, importato col tabacco dai primi bianchi sbarcati alla fine del Settecento. I primi suicidi, specie tra i giovani, hanno reso drammaticamente evidente l’errore.
Il WWF, dopo un importante e lodevole campagna di difesa degli animali del Polo iniziata alla fine degli anni Settanta, si rese presto conto delle conseguenze disastrose del divieto della caccia alla foca per i popoli della Groenlandia, riconobbe il proprio errore e si scusò pubblicamente, dichiarando che gli Inuit non costituivano alcuna minaccia per la conservazione della specie.
Greenpeace, invece, si comportò diversamente. All’epoca era una piccola organizzazione con qualche filiale in vari stati. I dirigenti intuirono che la campagna per le foche funzionava: i cacciatori, ormai, non approfittavano più del fatto che le madri di questi mammiferi lasciavano branchi di piccoli indifesi sul ghiaccio per andare a caccia. La loro pelliccia bianca era molto richiesta: li avvicinavano con le barche, li catturavano con le reti e poi li uccidevano a bastonate per non rovinare il manto, spesso li scuoiavano sul posto per aumentare il valore delle pelli. Queste pratiche erano state abbandonate da tempo, il divieto aveva funzionato, ma Greenpeace non ha cambiato rotta: “i teneri musi dei cuccioli erano perfetti per sensibilizzare l’opinione pubblica e raccogliere consensi. Gli Inuit, al contrario, erano pochi e incapaci di spiegare le proprie ragioni. In una parola, erano trascurabili”.
L’autore racconta anche un episodio recente molto brutto ma poco noto: un giovane cacciatore che con la sua barca si era spinto nel fiordo a caccia di foche e che è stato circondato dai gommoni di Greenpeace, arrivati qualche giorno prima sulla nave dell’organizzazione, quella enorme con un arcobaleno sulla fiancata. Hanno cominciato a girargli intorno minacciosamente e presto si è aggiunto anche un elicottero: il ragazzo è tornato a casa traumatizzato, si è rivolto alla polizia locale, poi a Peroni per organizzare una manifestazione pacifica: “Eravamo Davide contro Golia. Noi avevamo un filmato amatoriale e loro dicevano che non c’era stata alcuna contestazione e che non avevano aggredito il pescatore. Naturalmente, sui giornali è finita solo la loro versione, Nessuno sembrava interessato a conoscere il nostro punto di vista”.
“Ritengo che Greenpeace dovrebbe chiedere scusa, o perlomeno cercare una soluzione, organizzare un convegno per capire come aiutare il popolo che sta contribuendo a far estinguere”.

“Dove il vento grida più forte” non è un libro sulla Groenlandia, non ci sono descrizioni di paesaggi innevati, di iceberg e di ghiacciai. Ma è un libro sugli Inuit, sulla loro cultura, sul loro spirito. Scritto da un occidentale, un italiano altoatesino per la precisione, trapiantato da anni in mezzo ai ghiacci: uno sguardo lucido, severo, coerente. Peroni non da la soluzione, forse sa che non c’è più soluzione, ma ci stimola a riflettere, a pensare, a conoscere.
Scoprire quanto ci sia di vero nei racconti che ancora si fanno degli “eschimesi che vivono negli igloo” e quanto invece sia cambiata la loro esistenza: vivono in case di legno, riscaldate e con l’acqua corrente, vanno a scuola ed imparano l’inglese, hanno sostituito l’arpione col fucile ma quando uccidono una foca o una balena sono ancora malvisti e considerati dei barbari...
Peroni svela l’animo profondo degli Inuit, il loro essere miti e fieri al tempo stesso.
Durante la lettura accattivante e veloce di questo libretto ricco di aneddoti e racconti di prima mano, ho trovato conferma alla mia intuizione sul motivo che ha spinto di Inuit a migrare sempre più verso l’estremo nord. Originari della Mongolia, quaranta o cinquantamila anni fa, gli antenati degli Inuit vengono spinti lontano dai boschi e dai pascoli, nella tundra prima e poi nell’artico, passano lo stretto di Bering, raggiungono l’isola di Ellesmere e arrivano a Etah, nella Groenlandia nordoccidentale: “qualcuno, invece, va a nord di Etah e, toccato il punto più settentrionale della Groenlandia, ridiscende verso sud per andare a insediarsi sulla costa orientale. Sono questi gli avi dei miei amici di Tasiilaq”.
Ma perché sono scappati? Perché non si sono ribellati? Per la dolcezza, l’incapacità di difendersi, di attaccare i vicini, di scatenare una guerra per la difesa del territorio. Piuttosto scelgono di allontanarsi, meglio, sono costretti a farlo. Accettano comunque di vivere in condizioni dure e quasi proibitive, ma non di combattere! Si spostano verso nord, sempre più a nord, lontani dalle pianure, dagli alberi, dagli animali... e dagli altri uomini. Emigrano e si adattano: imparano a sopportare il freddo, la carenza di cibo, la totale assenza di legname. Non hanno terra da coltivare ma solo ghiaccio da calpestare. Diventano nomadi e cacciatori, e di un solo animale fanno la loro preda, la foca.
Insomma, hanno dovuto scegliere il freddo perché hanno voluto rifiutare la guerra...

Robert Peroni è stato scalatore ed esploratore del team “No-Limits”. Altoatesino di origini, a quarant’anni ha lasciato tutto e si è trasferito in Groenlandia, sulla costa orientale, a Tasiilaq: ha fondato la “Casa Rossa”, una residenza turistica ecosostenibile che dà lavoro agli Inuit in difficoltà.
Francesco Casolo, milanese, appassionato di viaggi e natura, dopo aver trascorso diversi anni all’estero è attualmente docente di Storia del cinema e da tempo impegnato in campo editoriale.

Dalla seconda di copertina si legge che quando Robert Peroni, trent’anni fa, arriva in Groenlandia per battere l’ennesimo record, si sente sperduto: una famiglia in Italia e una professione, quella di esploratore, di cui non capisce più il senso.
A ridare una direzione alla sua vita sono gli Inuit, vero nome degli “eschimesi”: nonostante i bianchi da anni impongano divieti che impediscono loro di vivere dignitosamente, lo accolgono come un amico, perché ogni uomo è sole se stesso e la solidarietà è un dovere. Affascinato da questa cultura, Robert si trasferisce nel centro più grosso della costa orientale, un paese di duemila abitanti, isolato nove mesi l’anno, e ne abbraccia la lingua, gli usi, le regole non scritte. Come il rifiuto di lamentarsi: la fame, il freddo, le privazioni sono accettate con il sorriso sulle labbra, perché soffrire è parte dell’esistenza. Da loro impara ad ascoltare le storie che porta il vento, la bellezza di vivere nel presente e la poesia nascosta nello sciamanesimo.
“Dove il vento grida più forte” racconta l’incontro con un popolo straordinario, che ha come unica arma la dolcezza, e con una terra ostile e meravigliosa, in cui la natura è madre e matrigna, dispensatrice di vita e di morte. Robert invita noi “bianchi”, che ci riteniamo depositari di una civiltà superiore ma non siamo capaci neppure di sorprenderci, a guardare quel mondo con occhi nuovi. In fondo, chi sono i veri primitivi: noi, che in trent’anni abbiamo distrutto una civiltà millenaria, o gli Inuit, che in quattromila anni non hanno mai fatto una guerra?

 

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