TATIYAK - letture

Collasso
Come le società scelgono di morire o di vivere
Jared Diamond – Einaudi Editore 2005-2007

Scheda del 23 luglio 2011 a cura di Tatiana Cappucci

Forse qualcuno ricorda che con il suo precedente lavoro, “Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni”, Jared Diamond ha vinto il Premio Pulitzer nel 1998.
Anche questo volume sulla scomparsa di alcune civiltà si preannuncia come un grandioso affresco dinamico di nozioni scientifiche, dall'antropologia all'ecologia, dall'epidemiologia alla geologia, dalla linguistica alla storia economica a quella politica e ovviamente alla geografia.
Però stavolta Diamond incentra le sue teorie sulla Groenlandia!

Sostiene l’autore che ci sono alcuni fattori che determinano il crollo di una civiltà: i danni ambientali, i cambiamenti climatici, l’ostilità delle popolazioni vicine, la presenza di relazioni commerciali amichevoli e la risposta della società ai suoi problemi ambientali. Non si conosce alcun caso in cui la scomparsa di una società possa essere unicamente attribuita al danno ambientale, mentre sono sempre più d’uno i fattori che concorrono al collasso: così fu per l’Isola di Pasqua, per l’Impero Romano, per gli antichi Maya. Il sottotitolo del libro, proposto dallo stesso Diamond potrebbe quindi essere il seguente: “Come alcune civiltà sono crollate per cause dovute ad una componente ambientale ed in alcuni casi con il contributo dei cambiamenti climatici, dell’ostilità dei popoli confinanti, della fine delle relazioni commerciali e del modo di reagire ai problemi propri di ogni società”.
Nei primi capitoli l’autore analizza i casi dell’Isola di Pasqua, un classico esempio di crollo ecologico, delle Isole Pitcairn e Henderson, crollate per la perdita di sostengo da parte dei popoli vicini, e della civiltà Maya, estinta in seguito alla combinazione di danni ambientali, crescita demografica e mutamenti climatici.
Negli ultimi capitoli, invece, studia la situazione delle civiltà moderne, dal Rhuanda ad Haiti, dalla Cina all’Australia, sottolineando come la globalizzazione impedisce ad una società di crollare in isolamento ma al tempo stesso influenza le situazioni di molti popoli in crisi.
Lo studioso osserva nel prologo che “per la prima volta nel corso della storia, ci troviamo di fronte al rischio di un declino globale. Al tempo stesso, però, siamo anche i primi ad avere l’opportunità di imparare velocemente dalle esperienza di altre società a noi contemporanee o del passato”. Ed è la profonda convinzione che l’uomo moderno possa ancora invertire la rotta per evitare la catastrofe ha indotto Diamond a scrivere questo saggio: “Il passato è una sorta di grande banca dati da cui possiamo trarre lezioni utili per continuare a far prosperare le nostre società”.

I capitoli centrali di questo mastodontico volume di 600 pagine che si legge con estrema facilità sono dedicati alla Groenlandia e alla fine dei vichinghi norvegesi: è il caso più complesso di crollo del passato, quello su cui abbiamo il maggior numero di informazioni poiché di trattava di una civiltà europea alfabetizzata dalla scrittura comprensibile, l’esempio migliore per spiegare come in un ambiente non favorevole il crollo della società non è inevitabile, ma dipende invece dalle scelte compiute dalla società stessa.
Perché in Groenlandia i primi norvegesi giunti con Erik il Rosso si sono estinti mentre sulle Isole Orcadi, Shetland e Fær Øer hanno prosperato? E perché mentre i groenlandesi norvegesi crollavano sotto il peso delle difficoltà ambientali i loro vicini Inuit riuscivano a sopravvivere? Cosa è successo?
Anche se si pensa spesso ai vichinghi come a dei temuti pirati, essi erano anche agricoltori, commercianti ed esploratori; in seguito all’esplosione demografica, la montuosa ed inospitale Svezia non era più sufficiente ad ospitarli e sfamarli tutti, così presero la via del mare verso occidente e per primi raggiunsero il Canada, avviando un primo tentativo di colonizzazione delle Americhe quasi 500 anni prima di Colombo. Ma commisero l’errore di mantenere nel nuovo ambiente il vecchio sistema sociale, rigidamente gerarchico ed impostato all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, attività di un certo rischio nelle fredde lande Groenlandesi. Probabilmente smisero di mangiare pesce per distinguersi dai “primitivi locali”, senza potersi sfamare adeguatamente solo con latte e yogurt. E non furono capaci di instaurare rapporti amichevoli con le popolazioni locali. La lontananza dalla madre patria divenne fatale quando i commerci si fecero più difficili ed incrinarono l’identità cristiana ed europea dei vichinghi.
Alcuni pensano che Erik il Rosso abbia coniato il termine di Groenlandia per attrarre i suoi connazionali con l’inganno, facendo loro credere che si trattasse di una terra verde e rigogliosa; seppur coperta per molti mesi all’anno di ghiacci bianchi, quando questi si sciolgono lasciano scoperta una terra soffice di muschio e colorata di un’infinità di fiorellini. Forse il vichingo era in buona fede.
I due insediamenti principali erano situati a 61° e 64° nord, ben al di sotto del Circolo Polare e ad una latitudine paragonabile a quella di Bergen sulla costa occidentale della Norvegia. Il clima, però, è più rigido, e le temperature inevitabilmente più basse. Tre furono quindi i fattori che ebbero un impatto disastroso sull’ambiente e di cui si resero responsabili i norvegesi in Groenlandia: la deforestazione, l’erosione del suolo e l’asportazione della copertura erbosa, causati rispettivamente dalla necessità di costruzione, di allevamento e di coltivazione.
Perché allora gli Inuit non crollarono?
Gli Inuit hanno saputo meglio di altri popoli adattarsi alle condizioni ambientali dell’Artico: poca legna per costruire case e barche e per scaldarsi? Aggirarono il problema con gli igloo, i kayak e le lampade alimentate col grasso di foca... in effetti, qualche altro illustre studioso ha parlato di loro come della civiltà della foca!
E così anche Jared Diamond parla dei kayak: come gli umiak, erano fatti in pelle di foca, con un ponte pieno di armi per la caccia e costruito su misura per la “corporatura, il peso e la forza del vogatore”: il kayak “era letteralmente <<indossato>> dal suo proprietario ed il sedile era un indumento cucito in modo da fare un tutt’uno con il parka, per sigillarlo contro l’acqua e per garantire che gli schizzi gelati sul ponte non lo bagnassero”. Quando un suo collega ha tentato di “indossare” il kayak costruito da un Inuit, ha dovuto presto demordere perché era troppo stretto per lui!
“Gli Inuit erano cacciatori flessibili ed evoluti, dotati di un gran numero di strategie diverse. Oltre a cacciare i caribù, i trichechi e gli uccelli terrestri, in modi non dissimili da quelli dei norvegesi, gli Inuit si distinguevano dai vichinghi perché usavano i loro veloci kayak per arpionare le foche e per catturare gli uccelli marini in volo sull’oceano (questa mi giunge nuova!) e perché si servivano dell’umiak per uccidere le balene in alto mare” con un lavoro di squadra.
Inuit e norvegesi quasi non si incontrarono nel corso dei cinque secoli di permanenza dei vichinghi in Groenlandia e non intrattennero rapporti commerciali; inoltre, il rifiuto della loro cultura costituì una grande perdita per i norvegesi, anche se non potevano né volevano saperlo.

Nonostante tutto, l’autore è un cauto ottimista e conclude la sua opera con queste semplici osservazioni: “ il mio ultimo motivo di speranza è frutto di un’altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell’Isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento, ma a migliaia di chilometri, i vichinghi della Groenlandia si trovavano allo stadio terminale del loro declino... Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore... Abbiamo l’opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun’altra società del passato ha mai avuto questo privilegio”.
E conclude con un monito: “Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne”. Approfittiamone!

Jared Diamond è docente di geografia all’Università della California di Los Angeles e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze americana.
Ha scritto diversi saggi di divulgazione scientifica, parla una dozzina di lingue ed i suoi libri spaziano su campi diversi, dalla biologia molecolare all'archeologia, e su materie così inconsuete come la progettazione delle macchine per scrivere o il Giappone feudale.
Per la sua vasta preparazione ed il gran numero di articoli che gli sono attribuiti, lo studioso inglese Mark Ridley ha avanzato la scherzosa supposizione che Diamond non sia una singola persona, ma in realtà “un comitato”.
Se non potete soffrire gli uomini col riporto, non cercate una sua foto su internet ma limitatevi a leggere i suoi libri!

 

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