TATIYAK - Cineforum Inuit 2012

Il popolo delle foche
Regia di Robert Young
Testi di Stanley Jackson
Voce narrante di Alexander Scourby
Film documentario a colori con voce fuori campo in inglese (prima parte) ed in italiano (seconda parte)
Durata: 52 minuti (prima parte) + 50 minuti (seconda parte)

Scheda a cura di Tatiana Cappucci

Sono due bellissimi film-documentari del 1971 nati dalla co-produzione della British Broadcasting Corporation e della National Film Board of Canada. La prima parte è stata realizzata in estate, la seconda in inverno, ed insieme costituiscono la più vivida rappresentazione della vita degli Inuit Netsilik della regione dell’artico canadese, ora appartenente al Nunavut, in quella che veniva un tempo chiamata la Pelly Bay, o Arviligjuaq, “luogo abitato dalle grandi balene”, e che ora è tornato ad avere un solo nome inuktitut: Kugaaruk, “piccola onda”.
I due filmati ci sono stati gentilmente forniti dal Museo della Montagna di Torino e sono stati realizzati dagli stessi autori e produttori del documentario sulla costruzione del kayak secondo le tecniche tradizionali groenlandesi che è stato inserito nella seconda edizione del Cineforum Inuit del 2010. Non sarà difficile riconoscere scene e personaggi e completare così la visione d’insieme delle abitudini quotidiane degli Inuit.
La prima parte del documentario, quindi, mostra una famiglia Inuit che si prepara ad affrontare l’inverno pescando pesce e cacciano foche, uccelli e caribù durante le lunghe giornate di luce della corta estate artica. La seconda parte mostra, invece, come una famiglia Inuit partecipa alla caccia sulla banchisa ghiacciata e alla cattura con l’arpione di una foca; offre anche uno spaccato dell’intensa vita comunitaria trascorsa durante il lungo inverno polare all’interno dell’igloo, la grande casa comune, con giochi, sfide, racconti orali, canti di tamburo e cerimonie di vario genere. Insieme, offrono uno spaccato di una cultura ormai scomparsa e spiegano delle incredibili capacità di adattamento dei Natsilik all’ambiente circostante.
La prima parte ha vinto un premio all’International Film Festival di Salerno nel lontano 1977 e la seconda invece al Festival Internazionale della Montagna della Città di Trento nel 1984.

         

La scena introduttiva del primo documentario è molto accattivante: giugno, 25°C, un cacciatore Inuit scivola carponi sulla banchisa usando delle pelli d’orso per imitare nella postura e nei versi la foca che sta cacciando e che riesce ad arpionare prima che si tuffi nel suo buco di areazione. La voce narrante spiega come le spedizioni inglesi organizzate per cercare il passaggio a nord-ovest abbiano raggiunto queste latitudini estreme ed abbiano scoperto un popolo incredibile, che mai prima aveva conosciuto l’uomo bianco e che anzi ignorava l’esistenza di altre genti ai di fuori del suo territorio.
Intorno ad una tenda di pelli c’è la moglie Kinguk ed il bambino Unyabik, lo stesso che giocava con sassi e pesci mentre il padre Ikimajak costruiva il kayak e che ora osserva tutte le fasi della divisione delle carni, del grasso e delle pelli della foca appena catturata. Il padre lavora con il coltello, la madre con l’ulu, il tradizionale coltello a mezza luna delle donne, ed in pochi minuti della foca rimane solo la carcassa. Con pochi gesti rituali vengono preparate lunghe fettucce di pelle e le provviste per l’inverno, come gli intestini intrecciati e seccati al sole.
Lavori artigianali di alta precisione sono compiuti dall’uomo sugli attrezzi per la caccia (arpione preparato con il trapano ad arco) e dalla donna sulle pelli per ricavarne indumenti.
La tecnica della caccia alla foca cambia: l’attesa intorno al foro di respirazione è lunga, paziente, faticosa e deve essere completamente silenziosa. Solo 5 ore più tardi il cacciatore sente qualche rumore nell’acqua ma il lancio dell’arpione non va a buon fine.
Ad un paio di miglia dalla tenda, una parete rocciosa è piena di nidi di uccelli ed il cacciatore diventa raccoglitore di uova, anzi scalatore.
La lunga giornata estiva è sempre luminosa e anche la natura si risveglia: nascono i cuccioli dei cani, sbocciano i fiori, si pesca, si costruiscono o riparano le imbarcazioni, si provano in acqua.
Il primo di agosto la famiglia si sposta a piedi per raggiungere il campo estivo attraverso la tundra fangosa ed infestata di moschini. La moglie si sistema i capelli secondo la tradizionale acconciatura con strisce di pelle mentre gli uomini sistemano gli sbarramenti di pietra per la pesca al salmone e l’acqua è talmente fredda che possono resistere appena 20 minuti. In attesa dell’arrivo dei salmoni, vanno sistemati gli arpioni a tre denti e poi è l’intera famiglia, compresa la donna che ha appena partorito, che si apposta sulle barriere al centro del fiume: si scopre finalmente a cosa servivano quelle lunghe fettucce di pelle!
Verso la fine di agosto è poi la volta della raccolta di bacche e ai primi di settembre la caccia ai caribù che impegna di nuovo l’intero gruppo: vengono infatti costruiti tanti inukshuk, ominidi pietra, per confondere gli animali, che miopi e spaventati, scappano verso l’acqua, dove vengono inseguiti in kayak, catturati e trainati verso riva. Entro due mesi non ci sarà più luce e tutti si godono la vita all’aperto.
“You find your way to exist in this place, not from moment to moment, but for a year, for a life time”.
Il regista ha potuto riprendere questo tradizionale stile di vita appena dieci anni prima che scomparisse del tutto: a partire dagli anni Settanta, infatti, anche i Netsilik hanno cominciato a vivere in case di legno riscaldate e a cucinare sui fornelli...

         

Il secondo film-documentario si apre con una scena analoga al primo: la caccia alla foca ma in condizioni differenti, sulla banchisa ghiacciata punteggiata dei fori di respirazione delle foche.
Alla fine di ottobre i Netsilik i preparano per il viaggio verso il mare con la slitta, costruita con pelli di foca, corna di caribù, strisce di cuoio, torba e ghiaccio: i pattini vengono assemblati, ghiacciati e montati, le corna, facili da lavorare, sostituiscono il legno delle traversine, la torba raccolta in estate ghiaccia quasi istantaneamente a temperature che si aggirano sui 30° sotto zero e costituisce un’ottima sciolina sotto una strato di acqua ghiacciata strofinata con una pelle di coniglio.
Si spostano in gruppo, perché in inverno si ricostituisce il nucleo familiare: quella ripresa è l’ultima migrazione del 1965, fino a raggiungere un punto favorevole per la caccia a circa 40 miglia al largo della costa. Per ripararsi dalle rigide temperature notturne, che scendono anche a 50° sotto zero, tutti costruiscono subito un igloo, uno per ciascun nucleo familiare. Per la caccia si allontanano in ordine sparso fino a 4-5 miglia di distanza grazie alle slitte trainate dai cani, che riescono a sentire l’odore delle foche attraverso la neve, in prossimità dei fori di respirazione. Individuato un foro, il cacciatore si apposta ed usa uno strumento delicato come il pelo di una coda di coniglio per segnalare l’arrivo della foca, prima o poi costretta a risalire in superficie per respirare. Il rituale impone di dividere la foca cacciata e di consumare subito il fegato crudo, di cui pare gli tutti gli Inuit siano molto ghiotti.
A marzo avanzato, dopo un buon inverno in cui non hanno sofferto la fame, giunge il tempo di costruire la grande casa comune, un unico igloo abbastanza grande per accogliere tutte le famiglie: le finestre sono costituite da blocchi di ghiaccio trasparente, perché non esiste il vetro, quello che gli Inuit chiamavano, quando lo scopriranno dagli europei, il ghiaccio che non si scioglie mai. Sul letto interno, una piattaforma di neve ricoperta di pelli, la temperatura si aggira intorno allo zero, e non può salire troppo altrimenti l’igloo si scioglie. La lampada ad olio in steatite o pietra saponaria è l’unica fonte di calore e di luce.
Quando le condizioni esterne non lo consentono, non si caccia, ma si lavora in casa, si sistemano gli strumenti, si disegna sulle finestre, si guardano crescere i bambini. Se la temperatura esterna è di -40°C ed il vento soffia a 20 km/h, allora la temperatura percepita e di ben 100° sotto zero!
Ma ci sono molti modi per tenersi caldi...
 

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